Laura Nyro
New York Tendaberry
“You look like a city, but you feel like a religion to me…”
L’artista e la sua Musa, Laura Nyro e New York. New York che, lo sappiamo, non è solo una città. Forse non è nemmeno una città ma un agglomerato di sogni, incubi, viscere, metallo, cielo. Lingue di cemento lorde di pioggia, malessere e desiderio di riscatto. Reticolo d’insegne al neon che, come un dissestato sentiero di mattoni gialli, conduce alla perdizione o all’illuminazione. Testa o croce, alla fine. Nella New York di metà dei ‘60s potevi trovare ogni cosa e il suo opposto, magari a pochi passi di distanza. Anche per quanto riguardava la musica: da un lato l’istituzionalismo del Brill Building, l’efficienza manageriale della “catena di montaggio” più oliata che il pop del secolo scorso ricordi (Berry Gordy permettendo…); dall’altro il giro dei loft nei quali germinavano le avanguardie jazz, elettroniche e minimaliste, nonché il circuito “off” del Greenwich Village che, da parco giochi per cantastorie di protesta, s’apprestava a diffondere un germe che avrebbe contagiato tutto il Lower East Side e oltre.
Perfettamente equidistante da questi tre estremi – ma in realtà fuori da qualsiasi contesto – stava Laura Nyro, cresciuta nel Bronx ascoltando le Shirelles e Van Morrison, Pete Seeger e Miles Davis, Burt Bacharach e Maurice Ravel (alla faccia di chi ancora vuole mettere steccati fra diverse espressioni musicali in ragione di concezioni estetiche che, nella migliore delle ipotesi, si risolvono in alibi per giustificare vanesi elitarismi); Laura educata all’High School of Music and Art di Manhattan, nel tempo libero impegnata a cantare doo-wop nelle metropolitane; Laura che si sente attratta dalla musica che manifesta una forte “coscienza sociale”, a prescindere dal genere (si veda la linea che dalla “Strange Fruit” immortalata da “Lady Day” passa per il Dylan gotico di “Ballad Of Hollis Brown” e sfocia, stavolta rinvigorita e cadenzata a ballo, in “Dancing In The Street” di Martha & The Vandellas e “People Get Ready” degli Impressions).
Seguendo le orme di team autoriali del calibro di Goffin & King, Greenwich & Barry, Leiber & Stoller (tutti domiciliati al 1619 di Broadway, guarda caso…), la ragazza s’affaccia al “mondo dei grandi” appena diciassettenne, grazie all’aiuto del padre trombettista jazz, il quale la presenta al suo primo manager. L’incantevole e sinistra “And When I Die”, ceduta a Peter, Paul & Mary per 5000 dollari, è la prima hit come autrice (#5 in classifica Billboard, ma nella versione dei Blood, Sweat And Tears del ’69 arriverà al #2), nonché preludio ad una carriera solista che con “More Than A New Discovery” (Verve Folkways, 1966) e soprattutto “Eli And The 13Th Confession” (Columbia, 1968) già si dimostra fruttifera e peculiare. Così la proposta sonora: menu in cui il folk resta presenza residuale, visto che il nostro chef in gonnella preferisce puntare sui sapori del pop brillante targato Brill Building, del soul, dei girl groups dei primi ’60s, del jazz, del gospel, del musical.
“New York Tendaberry” (Columbia, 1969) è l’opera terza, quella più “estrema”, enigmatica, sofferta. Il disco in cui le fonti, riaffermandosi, si annullano nell’unicità del gesto, nella temerarietà di un tuffo nel vuoto. Ora la ragazza procede su due fronti distinti ma complementari: estremizzare l’elusività della scrittura, approfondire lo studio sugli arrangiamenti. Il risultato è avanguardia pura per il cantautorato dell’epoca, e se si pensa che il materiale qui proposto è stato registrato fra il ’68 e la primavera del ’69, c’è da pizzicarsi le guanciotte giusto per assicurarsi di non stare sognando.
L’elemento comune dei brani è un bozzolo di pianoforte e voce, il “nido” in cui si adagiano e trovano riparo le canzoni. Canzoni che quasi non hanno struttura: se radiografate, mostrano uno scheletro liquido, fluido. Canzoni che seguono percorsi tortuosi (la logica del verse-chorus-verse qui è buttata alle ortiche), in un raffinato accostamento di sequenze, cambi di ritmo e tonalità, accelerazioni drammatico-schizofreniche (“Tom Cat Goodby”) accordi ricercatissimi (Bob Dylan li adorava, come confessò alla stessa Nyro durante un party), digressioni blues da pelle d’oca. Non c’è un tempo standard, tutto è sul filo del “rubato”. Prendete, ad esempio, “Captain For Dark Mornings” o la gemella “cattiva” “Captain Saint Lucifer” con i loro intervalli di quarta in stile Estremo Oriente e le tecniche “ripetitive”: è forse Nina Simone che suona Debussy con gli arrangiamenti di Benjamin Britten? No, è Laura Nyro (che è anche meglio). E “Gibsom Street”, con i suoi accordi sospesi e i rullanti che segnano, severi, ogni scarto fra le sezioni (tra le quali un funk orchestrale bello stradaiolo che sembra anticipare nettamente “Superfly”)? Impressionismo puro. Persino negli episodi più “pop” (le splendide “Mercy On Braodway” e “Time And Love”, il gospel impetuoso “Save The Country”) le armonie fioriscono di continuo, come in un flusso incessante di variazioni e capovolgimenti di fronte. E si sta parlando di canzoni assolute, fra le cose più meravigliose mai messe su nastro.
Di fondamentale importanza sono poi gli apporti del co-produttore Roy Halee e Jimmie Haskell: il primo abilissimo nel far “risuonare il silenzio”, ossia nel preservare la dimensione intima delle performance e far respirare gli spazi; il secondo, che si meriterebbe un posto in paradiso soltanto per aver messo mano alla partitura d’archi in “Ode To Billie Joe” della divina Bobbie Gentry, si dimostra ancora una volta insuperabile nel "traslare su pentagramma" gli arrangiamenti che la Nyro ha in testa. Arrangiamenti che si dispiegano seguendo una logica di economie e “strategie”, presenze sfuggenti e multiformi (si passa dalla big band “rockeggiante” al piccolo ensemble da camera; dai classici archi, legni e ottoni a ogni genere di campanello, percussione e strumento a corda), fosforescenze fugaci che appaiono e svaniscono come fantasmi.
E poi c’è Laura con la sua voce squillante, teatrale, un tortuoso ottovolante che perlustra abissi e tocca gli astri nel giro di due secondi: l’anima di una donna riservata e schiva, ma che vuole vivere l’amore e la vita in ogni risvolto, senza paura di sporcarsi le mani col peccato (“Don’t go to Gibsom cross the river/ The devil is hungy, the devil is sweet (…)/ There is a man he knows where I’m going/ He gave me a strawberry to eat/ I sucked its juices never knowing/ That I would sleep that night on Gibsom street”). Ferite aperte, in pubblico. Panni sporchi, sangue e miele, in bella vista. Sogni/incubi ad occhi aperti che nell’ode finale della Title Track vengono trasfigurati in uno degli squarci più poetici del suo intero repertorio: “I lost my eyes in east wind skies/ Here where I’ve cried, where I’ve tried/ Where God and the tendaberry rise/ Where quakers and revolutionaries/ Join for life, for precious years/ Join for life, through silver tears”.
Un trionfo, artisticamente parlando. Eppure, nonostante una permanenza di 4 mesi nella classifica di Billboard (l’unico album della Nyro a entrare in Top 40, per la precisione al numero 32), "New York Tendaberry" non vendette certo cifre astronomiche, così come modesto è stato, nel complesso, il successo commerciale della Nyro “in proprio”. Assai più consistente la sua fortuna come autrice per altri artisti, i quali sovente ne ripresero brani già editi aprendo loro le porte delle chart (fra i tanti basti citare i The 5Th Dimension, che nel ’68 portarono “Stoned Soul Picnic” al #3 e l’anno seguente spinsero “Wedding Bell Blues” fino alla vetta della classifica pop). Paradossalmente, l’unica hit a suo nome fu una cover della premiata ditta Gerry Goffin & Carole King, quella “Up On The Roof” confezionata su misura per i Drifters nel 1963 (quinta posizione nella classifica pop, quarta in quella R&B), il cui testo epitomizza con rara efficacia l’insofferenza della Nyro per l’industria musicale e il suo pressante desiderio d’evasione: “When this old world keeps getting me down/ And people are just too much for me to face/ I climb way up to the top of the stairs/ And all my cares just drift into space/ On the roof, it’s peaceful as can be/ And there the world below can’t bother me”.
Laura Nyro lasciò il music business nel ’71, a soli 24 anni. Ritornò qualche anno più tardi, in sordina, con la doppietta composta da “Smile” (’76) e l’ottimo “Nested” (’78). Poi il silenzio, interrotto soltanto da “Mother’s Spiritual” (’84) e “Walk The Dog And Light The Light” (’93). Infine la morte, a 49 anni, per lo stesso fottuto cancro che già aveva divorato la madre (alla stessa età, per giunta). È stata probabilmente la più grande cantautrice della sua era, e “New York Tendaberry” resta uno degli album che, seppure splendidamente isolati, quell’era l’hanno definita; di più: un reperto che ha scavalcato i limiti temporali e ha saputo “parlare” a intere generazioni di musicisti come e meglio di tanti suoi contemporanei. Facile dire che senza di esso forse Joni Mitchell non sarebbe approdata alle desolazioni pianistiche di “Blue” o al jazz-pop di “Court And Spark” (Mitchell che peraltro articola il suo mood in modo assai più lineare, smussato, laddove la Nyro cerca l’ostacolo, l’incongruenza sintattica, il contrasto stridente). Ancor più facile udire il riecheggiare di questi solchi nei lavori di artiste come Joan Armatrading, Rickie Lee Jones, Kate Bush, Jane Siberry e, di conseguenza, nelle varianti meno “allineate” del cantautorato femminile dei ‘90s e ‘00s. Meno scontato – ma parimenti indiscutibile, a giudizio di chi scrive – notare la sua influenza sul modo di comporre degli Steely Dan (fra l’altro sarà proprio Gary Katz, storico produttore del duo americano, alla console per l’ultimo album della Nyro), così come nelle sofisticatezze art-pop di Todd Rundgren, che ne riconoscerà pubblicamente l’influsso. Fa quasi impressione scriverlo, specie considerato lo status di mero culto in cui versa a tutt'oggi la discografia della Nyro, ma "New York Tendaberry" - un disco così intimo che la stessa Nyro ha sempre considerato il suo “heart and soul”- ha rappresentato un piccolo, silenzioso big bang per l'universo della musica popular. Pare doveroso, a questo punto, considerarlo non solo come omaggio a una città, ma come dono offerto al mondo intero.
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