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R Recensione

8/10

Mosè Santamaria

Risorse umane

Chi è Mosè Santamaria? Un artista con un nome in bilico tra esegesi veterotestamentaria e mariologia, foss’anche per quest’unico motivo, non passa inosservato. Egli stesso si annuncia cantautore cosmico, facendo risalire le origini della propria follia ai dischi giovanili di Franco Battiato e Juri Camisasca. Oltre a queste influenze – che nel disco toccherete con mano – Santamaria si rifa pure ai Depeche Mode, ai Talking Heads e ai Cure. Ed essendo genovese, aggiungeteci pure i migliori cantautori italiani. È da questo calderone che prende vita “Risorse umane”, esordio discografico di Mosè, un album che unisce tanta delicatezza alla pervadente nostalgia per le cose che non furono mai.

Il titolo stesso del lavoro si riferisce probabilmente a uno dei settori più in voga sul mercato del lavoro, quel reparto a cui tutti sottostiamo, e l’etichetta risorse umane rischia di diventare un elegante calcio in culo pur di non chiamarci cose. Insomma, ogni nostra volontà sia indirizzata alla flessibilità, alla produttività, alla mobilità. Generazione fluida, quindi. E inconsistente.

Sta di fatto che Santamaria non fa comunella con quasi nessuno dei suoi contemporanei. La poetica che gli è propria, in apparenza ironica, è in realtà verticale, forse non proprio trascendentale, di certo inintelligibile quanto l’esistenza di Atlantide: quei pochi veri estimatori di Battiato coglieranno pure la menzione di “Nel cantiere di un’infanzia” (1974) contenuta in “Come gli dei”. Possiamo dunque dividere il disco in due tronconi: quello dei pezzi classicheggianti e quello dei brani arditamente elettropop. Tra i primi c’è soltanto “Mine vaganti” cogli echi tribali di Fela Kuti; “I Love You Marzano”, con cui Santamaria confeziona un pacchetto musicale esclusivo, tra pop radiofonico e ricercatezza da fine gentiluomo; e “Compromessi e chiacchiere da bar”, l’unico episodio rockettaro, quasi country, di “Risorse umane”.

Tra i brani maggiormente elettronici, che spesso rimandano allo stile dei Baustelle, figurano “A Nizza (non era amore)”, autentica ballata technopop; la succitata “Come gli dei”, ove Mosè imbandisce una tavola di sintetizzatori melliflui e ininterrotti cymbals; “Mata Hari”, calembour di puro spirito dannunziano; “L’altra parte della città”, ove le macchine digitali sembrano impazzite nel traffico; “I colori di Françoise”, in cui parte un’orchestrina di fiati e Casio SA-1; infine, “Passato prossimo”, dove il sound si fa oltremodo plastico e sinottico.

Ma Santamaria è battiatiano soprattutto per il redivivo utilizzo della lingua italiana e dei forestierismi. Per meglio comprendere il suo stile d’autore, in questa sede è necessario riportare almeno qualche verso che troverete qui e là in “Risorse umane”. In ordine sparso: “l’erotismo autarchico dei regimi di solitudine”; “e tu mia amata/matta/Mata Hari”; “l’odore estivo del Bilboa che ti fa così schifo”, “e un po’ per noia e un po’ per svago, a ganja e Jodorowsky crescevamo”; “amore mio tu mi fai morire come in quel duello di Leone Sergio”; “c’era il Messico nei tuoi occhi, Parigi in rivolta nelle tue parole”; “mi sembra di far l’amore nudo in una Smart”. Mosè Santamaria – ci metto la mano sul fuoco – diventerà, sarà, resterà.

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Paolo Nuzzi alle 15:06 del 26 gennaio 2016 ha scritto:

Mi hai incuriosito. Ascolterò e farò sapere.