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R Recensione

7/10

Shannon Wright

Honeybee Girls

Less is more. Questo lo dicono loro, gli “ammaragani”. Mia nonna, invece, che era nata contadina e che l’America non sapeva nemmeno di preciso dove fosse finché, con la guerra ormai agli sgoccioli, non se l’è ritrovata, nell’inequivocabile uniforme, paracadutata a pochi metri da casa, amava ripetere che “il meglio è spesso nemico del bene”. Il che significa più o meno la stessa cosa e in pratica vuol dire che quando si sa quello che si fa non c’è bisogno di metterlo platealmente in mostra o di gettare fumo negli occhi del prossimo. La semplicità della forma abbinata alla qualità dei contenuti è l’unica cosa che dura nel tempo, il resto sono solo chiacchiere che se le porta via il vento. E, perdonatemi ma oggi sono in vena di detti popolari e metafore gastronomiche, anche lo stile della nostra Shannon Wright, per l’appunto, assomiglia ad una di quelle vecchie inestimabili ricette che un tempo si tramandavano di madre in figlia come un caro segreto di famiglia. 

Ricette semplici, composte d’ingredienti semplici, genuini, nutrienti, scelti con cura, che i soldi in tasca erano quelli che erano ma si doveva comunque far onore alla tavola. Semplicità e profondità sono sempre stati i tratti essenziali della sua poetica musicale. Il massimo dell’emozione con il minimo degli strumenti espressivi. Simile in questo ad un’altra tipina niente male che l’ha preceduta di qualche anno su quella personalissima “route” che è ormai l’Atlanta-New York City: Chan Marshall in arte Cat Power. Con la differenza che la Shannon, pur senza rinunciare ad ovvie variazioni nel dosaggio degli elementi e ricalibrature espressive, per ora s’è mantenuta fedele fino in fondo a quelle che, in partenza, erano le premesse. 

Nella logica di quanto appena sottolineato, Honeybee Girls”, l’album nuovo con cui la Wright sembra chiudere idealmente un decennale di onorata carriera, asseconda la crescita dell’artista con un’appena percettibile ma significativo slittamento d’orizzonte nel segno di una sostanziale continuità. Continuità nei confronti del precedente “Let In The Light” (2007) e del disco con Yann Tiersen che avevano irradiato più d’uno squarcio di luce e serenità nel solitamente inquieto e nottambulo cielo introspettivo della polistrumentista georgiana. Ma continuità anche rispetto alle opere più lontane e, in generale, a quella originaria coabitazione fra indie rock femminile di scuola newyorkese e basico cantautorato da camera. Essenzialità ed equilibrio elegantemente rappresentati anche dal disegno di copertina: una sorta di stencil con l’immagine della ragazza del titolo, l’impronta del viso blu e una corona d’api dorate al posto dei capelli, il lettering della grafica che ne riprende i colori su uno sfondo nero pece. 

E se psicologicamente l’autrice sembra finalmente intravedere un po’ di pace nei tempestosi riflussi del suo animo tormentato (“No more black rain / No more black rain to come”, la frase pronunciata nel ritornello della canzone eponima, è forse la chiave del disco), musicalmente oscilla fra inedite escursioni roots come il brano d’apertura “Tall Countryside”, country al grado zero della scrittura melodica, per piano, chitarra acustica, refoli d’organo e lievi calpestii di spazzole, o “Black Rain”, dream folk appena adombrato dagli archi, e una vena rock più nevrotica, chitarristica, reiterata come “Trumpets On New Years Eve” o vibrata e percussiva, con uno sghembo tempo in ¾, come “Embers In Your Eyes”. 

Altrove il minimalismo della scrittura assume i connotati di una trance onirica come nella title track, scandita dagli staccati marziali della batteria e dagli accordi binari della chitarra elettrica, o nella ninna nanna sonnambulica di “Asleep”, o di una cerimonia liturgica e claustrale come in “Father”: due tasti di piano, base elettronica, trasecolare d’archi, voce atonale riverberata dall’eco. Né mancano gli episodi che si ricollegano in modo più tradizionale al lied classico, “Never Arrived” affine alla PJ Harvey di “White Chalk”, o più arioso e fluente come “Strings Of An Epileptic Revival” e “Sympathy On Challen Avenue”.  

Lunga vita alle ragazze e alle api, dunque. Che se una sola delle due si dovesse estinguere, lo diceva anche Einstein ma non ci voleva certo Einstein per capirlo, tanto varrebbe dire addio all’intero pianeta.  

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 7 voti.
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krikka 8/10
target 6/10
Cas 7/10

C Commenti

Ci sono 6 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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target (ha votato 6 questo disco) alle 15:49 del 2 ottobre 2009 ha scritto:

Alle mie orecchie, un episodio minore nella discografia di Shannon. Qualche pezzo di buona caratura c'è, senz'altro, ma l'insieme, anche dopo più ascolti, scivola via senza lasciare granché. Minutaggio bassissimo, peraltro.

Marco_Biasio (ha votato 6 questo disco) alle 23:02 del 2 ottobre 2009 ha scritto:

Recensione bellissima, Simone, a mio parere una delle tue migliori. Mi è proprio piaciuta. Concordo con Francesco, in ogni caso: dischetto dalle medie pretese, sicuramente troppo corto, molto più oscuro e tenebroso del precedente, capolavoro, "Let In The Light". Capace di assolute perle, come il terzetto title-track - "Black Rain" - "Father", ma anche di ingenuità imperdonabili come "Strings Of An Epileptic Revival" e le robuste chitarre di "Trumpets On New Year's Eve", quasi una reprise della "St. Pete" contenuta nel disco precedente. Il 6 è comprensivo di una media fra le canzoni nel complesso (7) e la brevità del pacchetto (5).

fabfabfab (ha votato 6 questo disco) alle 22:24 del 12 ottobre 2009 ha scritto:

Concordo. Disco minore, breve e leggermente approssimativo. Però lei è proprio brava, e arriva in 25 minuti dove altre(i) non arriveranno mai.

NathanAdler77 (ha votato 8 questo disco) alle 18:49 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Solito ottimo disco, e in termini di minutaggio la Wright non è mai stata "sprecona" (mezz'ora o giù di lì)...La traccia omonima, "Black Rain", "Father" e la cover degli Smiths valgono il prezzo del biglietto.

Cas (ha votato 7 questo disco) alle 19:41 del 12 maggio 2013 ha scritto:

disco buono, come al solito, con ottimi pezzi (la splendida Trumpet's On New Year's Eve, per quel che riguarda il lato indie rock venato di math, Black Rain per il lato ballad). un ponte per il successivo ottimo Secret Blood, in grado di dialogare con gli esordi rock con le normali difficoltà a dare il giro dopo il capolavoro di cantautorato Let In the Light. Ora non resta che ascoltare il nuovo album 2013, che sembra proseguire sulla scia di Secret Blood...

Marco_Biasio (ha votato 6 questo disco) alle 14:39 del primo novembre 2013 ha scritto:

E' un Secret Blood ancora più oscuro e pesante, noise a 360° con, in più, una ballata mozzafiato ("Bleed"). Shannon ha un talento incredibile. Io faccio davvero fatica a sentire episodi minori nella sua discografia. Questo, come detto a suo tempo, lo è solo per l'esagerata brevità, non per la fattura dei pezzi. "Black Rain" è una canzone di una bellezza accecante.