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R Recensione

8/10

Vic Chesnutt

At The Cut

Vic Chesnutt torna, a poca distanza dall’ultimo gradevolissimo seppur controverso Dark Developments (Orange Twin, 2008), con il suo quindicesimo album in quasi vent’anni di carriera. Già, vent’anni. Tanto è passato da quell’ esordio low-fi a titolo Little (Texas Hotel, 1990), registrato sotto l’egida di Michael Stipe e rimasto a far da blocco di partenza per un percorso che oggi pone Vic Chesnutt fra i più grandi songwriters in attività. Un percorso segnato in realtà da alcuni episodi non così convincenti (su tutti i due album a nome Brute, insieme con Widespread Panic, e i due lavori del 2000, Merriment e Left To His Own Devices) che fecero nascere fondati sospetti di un imminente, precoce tramonto creativo dell’artista giusto all’alba del nuovo millennio. Sospetti subito fugati dai due album seguenti, Silver Lake e Ghetto Bells (New West, rispettivamente 2003 e 2005) e definitivamente sepolti con l’apoteosi dello splendido North Star Deserter (Constellation, 2007), a detta di molti vetta incontrastata nel cammino del cantautore georgiano. Proprio da qui riparte Vic, proponendo oggi con questo At The Cut un seguito ideale che risulta essere sostanzialmente un possibile lato B di quel lavoro.

Collaborazionista incallito, non si sa se per vocazione o per millantata insufficiente capacità di arrangiamento, Vic Chesnutt vanta partecipazioni mirabolanti in buona parte dei suoi lavori: Lambchop, Bill Frisell, Van Dyke Parks, Elf Power (con Amorphous Strums in Dark Developments) sono solo i nomi più conosciuti.

In casa Constellation, però, Vic ha forse trovato gli amici migliori. O, perlomeno, quelli più funzionali alla resa della sua poetica. I musicisti all’opera per l’etichetta canadese, un collettivo che comprende elementi di Thee Silver Mt. Zion e Godspeed You! Black Emperor, nonché quel mostro sacro che risponde al nome di Guy Picciotto (Fugazi), offrono al nostro un tappeto sonoro ideale su cui stendere l’inconfondibile voce e una capacità di resa dinamica ed espressiva perfetta per supportarne la stramba, sanguigna scrittura. I risultati si sono apprezzati nel già citato North Star Deserter e, oggi, li certifichiamo con l’ascolto di At The Cut, che riprende il discorso laddove era stato interrotto, aggiungendo sicuramente almeno qualche perla al repertorio di Chesnutt. Nonostante le tante similitudini, questo lavoro si allontana dal fratello primogenito per spingersi oltre, senza necessariamente fare meglio, ma neppure peggio: gli stilemi che hanno reso noti i Thee Silver Mt. Zion sono qui un po’ meno riconoscibili e il disco è, in generale, non più un binomio musica/voce che si regge sulla qualità specifica degli elementi responsabili (band e cantante), ma piuttosto sul loro spontaneo confluire l’uno dentro l’altro. Così come i musicisti spingono la loro estetica verso lidi inesplorati e più confacenti alla vocalità classica di Chesnutt, quest’ultimo elabora il suo linguaggio verso l’espressionismo epico e potente tipico del combo canadese.

L’opener Coward ne è l’esempio più rappresentativo: sui movimenti in crescendo che compongono il brano Chesnutt mette in scena un testo di terrificante impatto, pericoloso, strisciante e infidamente latente come una serpe, giocando come solo lui sa fare con l’ambiguo e il paradossale (“The courage of the coward – greater than all other(Frank Norris)/A scaredy cat’ll scratch ya/if you back him in a corner/I am a coward). Lo interpreta con sincera drammaticità, preferendo alla melodia, sulle tensioni dei crescendo strumentali, l’espressività asfissiante della ripetizione. Ad ogni culmine sonoro segue un’apertura filmica, dal potere fortemente evocativo. La particolare struttura del pezzo si spiega in parte con la sua iniziale destinazione d’uso: Coward è un brano che Vic scrisse per il film Empires Of Tin, del regista Jem Cohen (responsabile tra l’altro dell’incontro Vic/Constellation), e che fu suonato dal vivo nel 2007 per il Vienna Film Festival.

Se qui è evidente lo sforzo di Chesnutt nel cercare un’espressività fervente e diversa, la successiva When The bottom Fell Out ce lo riconsegna nella sua veste più classica, accompagnato solo dalle corde pizzicate della sua acustica, a cui lega semplici melodie vocali estratte da un testo tendenzialmente fatalista.

Pochi minuti per ricordare il Vic che fu, e arriva Chinaberry Tree, decisamente il pezzo più immediato del lotto e nonostante questo uno dei migliori. Scopriamo la band intenta in un romantico swing, portato e sostenuto dal contrabbasso di Thierry Amar, su cui la voce tratteggia una delle melodie più belle ed intense del disco. L’apertura del ritornello è esaltata dall’inserimento di drappi ricamati dal violino, a cui si contrappongono i tagli di una chitarra solista affogata nel riverbero. Meravigliosa.

Chain si presenta come degli arrangiamenti più validi: intersezioni di pianoforte e chitarra fanno da sfondo ad un testo metafisico, minimale nei vocaboli come nell’esecuzione. L’emozione sta in gran parte nell’avvento della parte centrale, fra le ripetizioni di inizio e fine, quando la voce cresce di intensità istigata dall’entrata di una chitarra distorta. We Hovered With Short Wings è ancora un’anomalia. Chiude il primo lato come lo spegnersi delle braci in un camino. Su uno sfondo rumoristico che sa di macchinari industriali e di lenzuola bagnate, la sezione ritmica indugia in un languido groove vagamente jazz, mentre Vic recita la sua delicata poesia in un soave falsetto che, così convinto, non si era ancora sentito.

Philip Guston (With Clark Coolidge) funziona da tasto di reset. E’, insieme con Coward, il brano dove il sound Silver Mt. Zion più si manifesta nella sua originale e antica veste. Tanta elettricità da gustare e uno staccato fra le strofe con le consuete egregie meraviglie chitarristiche e percussive.

Da qui si entra nella fase finale di At The cut, dove, nell’esplorazione di temi quali il ricordo, l’introspezione e la morte, ritroviamo uno dei lati di Vic che più ci piace: il sardonico passare oltre, la cinica ironia, la casta sincerità ed un’umanità che poche persone possono trasmettere in maniera così trasparente. In realtà Concord Country Jubilee, canzone su fumose reminescenze giovanili, non è uno degli episodi migliori, con quel suo piglio pastorale che fatica a colpire in profondità.

Ma subito dopo arriva Flirted With You All My Life e ogni mancanza è dimenticata. Charleston, cassa e un contrabbasso profondissimo ci accompagnano fino ad incontrare la voce. […] Everywhere I go/You’re always right there with me/I flirted with you all my life/Even kissed you once or twice […] When you touched a friend of mine/I thought I would lose my mind.

Sembrerebbe la solita canzone d’amore. E potrebbe anche esserlo, ma dobbiamo attendere il ritornello per capire che l’oggetto del flirt altri non è che sua eminenza sorella Morte: I was not ready/O’Death… I’m not ready. E via così, fra la constatazione della sua crudeltà e costanza, i ricordi della resa della madre alla malattia (Lord Jesus, please I’m ready), le invocazioni ad attendere, perché lui, Vic, no, non è pronto per niente (O’Death… Clearly I’m not ready).  È a questo punto del disco che davvero sale un groppo in gola. Nel sentire un uomo in sedia a rotelle per un incidente occorsogli a diciotto anni cantare della morte con un piglio fatalmente sereno, che per dirla tutta ricorda incredibilmente Bob Marley anche nella definizione del fraseggio melodico.

It Is What It Is è un fiume in piena di parole e un viaggio in una vanagloriosa autobiografia. Da pelle d’oca. I am a monster like Quasimodo or Caliban è la presentazione che Vic fa di se stesso, per poi esprimere il significato di “apparenza” nel tessuto sociale odierno e finire, insieme con l’ingigantirsi dell’arrangiamento, in una tenera seppur serissima descrizione di sé.

La canzone che chiude l’album non si farà ricordare per l’arrangiamento o il giro armonico, ma per le lacrime che avremo versato al suo ascolto. Granny (un po’ il nostro “nonnina”) è una delle canzoni più commoventi che abbia sentito.Vic è un bambino e qui ci sono un paio di suoi ricordi: la nonna che prepara il formaggio in cucina, la nonna che si pulisce i denti finti dai semini delle more. Tutto per trasmetterci l’amore di quest’anziana donna, l’amore perduto, e quello trovato: Granny, o’granny/where did your husband/my granddaddy go?.../she said, “He went off to heaven/just before you were born…”/And she said, “You are the light/of my life and the beat of my heart.

Un album dipinto nella bruma della fugacità della vita. Da un uomo che sicuramente conosce ciò che canta, viste le sfortune che lo hanno preso di mira da sempre. Proprio qui sta la magia di questo personaggio: la capacità di tradurre il sentimentale da latte alle ginocchia in forme letterarie estremamente oneste e schiette, senza vittimismo e senza scuse, con ironia intelligente, con un fare sardonico che a volte può diventare molto, molto arrabbiato.

Cultura umanistica e amore per la prosa e la poesia traboccano da ogni brano qui contenuto. La tradizione sudista si sposa con l’analisi del moderno, muovendosi in dedali tortuosi di meditazioni e osservazioni rese attraverso un uso della lingua assolutamente personale: parole storpiate, assonanze, rime e costruzioni grammaticali quasi matematiche, un caratteristico modo di trascinare le sillabe tipicamente jazz, il tutto reso attraverso una voce incredibilmente verace e sofferta, che cresce invece di affievolirsi album dopo album, e capace di dare il meglio di sé proprio in quelle imperfezioni di intonazione che ad altri rimprovereremmo.

Questo è Vic Chesnutt, uno che su una sedia a rotelle è ancora in grado di lasciare sulla linea di partenza la stragrande maggioranza dei suoi colleghi songwriters. E grazie, meno male che lo fai, Vic.       

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Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 20 voti.
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target 7/10
krikka 6/10
george 8/10
luisao 8/10
rael 5/10
REBBY 7/10
lev 9/10
giank 9/10

C Commenti

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target (ha votato 7 questo disco) alle 21:03 del 29 settembre 2009 ha scritto:

Inizio e fine ("Coward" e "Granny") possono ben rientrare nel topic del forum che si chiama 'canzoni da magone': spettacolari. Top del cantautorato di quest'anno. Su e giù il resto del disco, che in qualche punto (2-6-7) secondo me cala un po' proprio a livello di scrittura, che è dove l'album punta di più. Meritata, comunque, la super-analisi di Paolo.

george (ha votato 8 questo disco) alle 21:18 del 2 ottobre 2009 ha scritto:

questa è roba da top ten

comprate il vinile!

...è bellissimo e al suo interno c'è il cd!!!

Roberto Maniglio (ha votato 7 questo disco) alle 23:27 del 5 ottobre 2009 ha scritto:

In pieno accordo nei contenuti con la recensione di Paolo e con il commento di Target

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 15:37 del 9 ottobre 2009 ha scritto:

Anche per me ci troviamo di fronte ad uno degli

album cantautorali americani migliori dell'anno.

Non al mio preferito però. Sia in USA (Bill

Callahan) che soprattutto in Canada (Patrick

Watson) c'è, per i miei gusti, chi ha fatto meglio mettendo in fila una track-list senza

punti deboli. Qui anch'io, come Francesco e

Roberto, noto dei "cali" anche vistosi. D'altra

parte anche il suo illustre predecessore (North

star deserter) aveva per me questa caratteristica. Certo se si mettessero insieme

le migliori canzoni dell'uno e dell'altro, beh

allora questa sarebbe davvero un'opera

straordinaria. Ah, ho letto molte recensioni di

questo disco e la mia preferita è senza ombra di

dubbio questa.

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 0:16 del 22 ottobre 2009 ha scritto:

lascia una sensazione di vuoto questo disco che è difficile da quantificare. gli arrangiamenti della mt zion,a tratti infiammano completamente il sound (it is what it is;"philip guston"),altre volte, lo denudano completamente ("coward"; "we hovered...").ho trovato un vic più intimista, ancor più melodrammatico rispetto agli episodi precedenti. "chinaberry tree" e "it is what it is"

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 0:17 del 22 ottobre 2009 ha scritto:

chinberry tree e it is what it is...

...le mie preferite

bargeld (ha votato 8 questo disco) alle 13:35 del 24 novembre 2009 ha scritto:

beh paolo, un paio dei dischi che hai recnsito saranno probabilmente nella mia top 2009... non è difficile immaginare quale sia l'altro. per ora grazie per questo.

DonJunio (ha votato 9 questo disco) alle 15:34 del 24 novembre 2009 ha scritto:

Disco dell'anno per me.

paolo gazzola, autore, alle 17:24 del 24 novembre 2009 ha scritto:

RE: Disco dell'anno

Grande Don. Questo alla faccia dei due là davanti.

paolo gazzola, autore, alle 17:18 del 24 novembre 2009 ha scritto:

Felice, Daniele. L'altro, se ho capito giusto, è meglio non citarlo, è una bomba innescata... Vic sarà anche nella mia top ten dell'anno. Uno fra i miei artisti preferiti di sempre, una delle sue opere migliori di sempre. Alla faccia dell'imparzialità.

lev (ha votato 9 questo disco) alle 12:46 del 3 febbraio 2010 ha scritto:

micidiale!

ascoltarlo poi, alla luce della sua tristissima fine è un emozione difficile da descrivere.