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R Recensione

7/10

The Tallest Man On Earth

Dark Bird Is Home

L'Uomo più Alto in circolazione - anche quando decide di mascherarsi da uccello nero, da fantasma verrebbe da dire - appartiene alla ristretta cerchia degli artisti strutturalmente incapaci di fallire.

Non sono molti: anche i più grandi hanno commesso passi falsi. Lui no: ha imboccato la sua spaziosa e soleggiata highway da un bel pezzo, e giusto tre anni orsono ci ha regalato una fra le pagine più toccanti e "pulite" – in ambito musica d'autore – del decennio dieci.

Ciò premesso, posso dire che "Dark Bird Is Home" mi soddisfa, pur rappresentando un piccolo passo indietro rispetto alle algide vette avvicinate nel 2012. Mi spiego meglio: l'interpretazione rimane quasi sempre vertiginosa (di fatto, Matsonn si conferma un Dylan meno rappreso nella sua acida arroganza), e gli arrangiamenti sono ariosi ed elaborati (anzi, decisamente più gonfi e complessi rispetto al passato: in alcuni momenti, policromatici e vitali come nel miglior Sufjan Stevens). Manca però il brano capace di accendere la scintilla in eterno.

In sostanza, al quarto lavoro Matsonn si conferma autore da copertina, e sfoglia con eleganza le pagine del suo diario personale, scritto peraltro in contesti, addirittura in nazioni diverse: ma forse non regala più capolavori da immortalare, da consegnare alla storia.

Banalmente, potrei dire che "Dark Bird Is Home" racconta di un lungo viaggio, interiore e reale, che alla fine riporta lui (e i suoi fantasmi) sulla soglia di casa: "Fields of Our Home", con il suo incedere vagamente youngiano e la melodia chiaramente Tallestiana, è davvero degna del capolavoro del 2012, specie quando la voce si impenna, subito dopo il ritornello, e i brividi corrono lungo la schiena (ma anche il finale "pastorale" è una chicca: uno stupendo gioco a incastri che rivela la raffinata, sottile concezione estetica del piccolo-grande scandinavo).

Il singolo "Sagres" non è meno efficace: qui la ricchezza dell'impasto (ma lo stesso vale per la maestosa, nostalgica "Seventeen"), corposo come mai in ambito autorale (piano, tromba, sassofoni vari, tape machine, clarinetto, banjo etc... molti peraltro suonati da Matsonn stesso), è un valore aggiunto.

Il tema centrale è quello del viaggio, dicevo: "Little Nowhere Towns", energica e velata di malinconia, tutta giocata intorno al giro di pianoforte, rappresenta in tal senso l'ennesimo tassello importante. Vale lo stesso principio per la dolcissima, conclusiva, title-track, che rinuncia agli arrangiamenti articolati per tornare alla consolidata formula voce-chitarra-testo da pelle d'oca: il giorno improvvisamente ti abbatte, ma tu stringi le montagne più grandi fra tue mani, tutto vive ancora nella tua testa. Il resto sono i frammenti di una storia al capolinea (così sembra di intuire) e rivelazioni di una notevole capacità descrittiva, in cui l'ermetismo (recuperare per credere la bellissima ("1904", da "There's No Leaving Now") non appare mai gratuito.

Tallest non cambia rotta, nonostante il successo di pubblico non sia proprio il pezzo forte del suo repertorio: anche solo per questo, chi scrive nutre la massima stima per il talentuosissimo menestrello nordico.

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Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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Jacopo Santoro (ha votato 6,5 questo disco) alle 12:00 del 30 maggio 2015 ha scritto:

Niente di nuovo sotto il sole. Ma è almeno un 'solito' ben fatto.