Leonard Cohen
Songs of Leonard Cohen
Give me a Leonard Cohen afterworld/ So i can sigh eternally
(Kurt Cobain)
Un vecchio 45 giri di mia madre datato 1972 (fanno fede: l’etichetta posta al centro del vinile e l’impronta sbavata di una bic blu inarcata sul cartoncino sottile da chissà chi e chissà quando…). La copertina color ardesia versa ancora in buone condizioni nonostante i graffi e le piegature del disuso ne abbiano modellato la superficie come le dita di un vasaio sulla terracotta (il margine superiore,quello da cui si estrae il disco,evidenzia una piccola lacerazione nei pressi del vertice destro). Su entrambi i lati, in basso a sinistra, campeggia una foto un po’ sgranata; in alto una scritta rotonda e panciuta indica il nome dell’autore e quello della canzone; il testo è vergato di seguito con caratteri esili e minuti come una filigrana: “Fabrizio De Andrè”, “Suzanne”, la prima facciata, “Giovanna D’Arco”, il lato B.
Poi la preziosa reliquia comincia a girare sul piatto del vecchio, ligneo Thorens e tu trasecoli nell’ascoltare l’impassibile, delicato baritono del tuo caro “amico fragile”che intona ottonari sciolti sul malinconico contrappunto orchestrato da Nicola Piovani: “Nel suo posto in riva al fiume/ Suzanne ti ha voluto accanto/ e ora ascolti andar le barche/ e ora puoi dormirle accanto/ si, lo sai, che lei è pazza/ ma per questo sei con lei…”. Ridestatoti da tanta commovente malia scruti con più attenzione le note di copertina e finalmente rinvieni l’arcano, il dettaglio rivelatore (che era li da sempre, appena sotto i tuoi occhi, come la lettera rubata per Dupin): nella spaziatura che scinde il titolo dalla colonnina del testo c’è scritto “ F. De Andrè – L. Cohen”.
Questa banale parentesi privata non è soltanto la cornice del mio primo folgorante incontro con il genio del cantautore di Montreal, ma in qualche modo anche l’allegoria domestica del suo universo soffuso e conturbante, aurorale e fuligginoso: una testimonianza divulgata per interposta persona, quel suo essere sempre e comunque presente ma altrove, da un’altra parte, in un’accezione opposta seppure affine alla trama della recente biografia cinematografica dylaniana.
Se Dylan ha elevato la vulgata del Greenwich, l’humus linguistico dei beatnick a ballata lirica, Cohen denuda la mitologia classica degli aedi e le parabole cristiane degli apostoli fino a ridurle a laconici ed allusivi fraseggi colloquiali. Un’osmosi di chansonnier francesi (Bruant, Brel, Brassens), carmen latini (gli “Amores” di Ovidio) e della “age of american novel” (Steinbeck, Saroyan).
Socrate, Sant’ Agostino e Schopenauer illustrati grazie agli schietti exempla del folksinger.
L’umanesimo di Cohen, la sua lucida filosofia esistenziale, è intriso di un pessimismo gnostico e universale, una pietas e un pacifismo astorico e asociale che si sposano meravigliosamente con le grida silenziose e gli strilli sussurrati della narrazione, con l’accompagnamento acustico o dimessamente orchestrale delle armonie. Il tema prediletto delle sue canzoni è l’elegia degli umili e degli umiliati, la religiosità laica della sofferenza e del riscatto (per lo meno morale): santi e semi-dei si muovono con passo claudicante nella Stige del quotidiano, incarnandosi in un’umanità insieme cinica e compassionevole, abbrutita sebbene capace di remissioni eroiche e paradossali, mescolandosi a personaggi presi dalla vita di tutti i giorni,i quali assurgono simbolicamente a trepidanti vette di carità e purificazione e divengono, talvolta, imprevedibili, sacrificali strumenti di salvezza per il loro prossimo. Cohen può assumere di volta in volta le fattezze di un chierico viandante, di un ex predicatore allo sbando come il Casey di “Furore”, di un anacoreta della musica popolare.
Leonard Cohen, nato a mezza via fra il Canada francese e quello inglese da una famiglia di origine ebrea, si trasferisce a New York dopo la laurea e, ferma intenzione di diventare il nuovo Fitzgerald, pubblica quattro raccolte di poesia e due romanzi che, nonostante il plauso della critica, vendono appena qualche centinaio, forse un migliaio, di copie. Nel 1966, assodato che la scrittura non era in grado di garantirgli una vita agiata, forse neanche disagiata, si avvicina alla musica in coda alla “folk renaissance” del Village e grazie all’interessamento di Judy Collins (che incide due sue canzoni) conosce John Hammond (scopritore fra gli altri di Billie Holiday, Aretha Franklin e Bruce Springsteen oltre che dello stesso Dylan) che, insieme a John Simon, sarà l’architetto dei suoni scarni e delicati di Songs of Leonard Cohen (Columbia, 1968).
Al numero uno, in una versione sostanzialmente fedele a quella del “Faber” (consentitemi il paradosso mnemonico-temporale), c’è proprio Suzanne, idillio romantico e visionario che si libra su merletti orchestrali e cori femminili evanescenti come l’ordito delle Parche, tinteggiando il ritratto a pastelli di un santa/fattucchiera che predice una redenzione dall’oltraggio per gli ultimi e i diseredati. Master Song è la sua Desolation Row: minuetto in ¾, otto strofe e nessun ritornello, AAAAAAAA e mai un bridge che preluda alla B, che va a comporre il lamento apocrifo di un Cristo infermo abbandonato dalla sua Maddalena, avvinto dal veleno dell’amore carnale e da una disillusione feroce nei confronti delle promesse della fede. Winter Lady, ninna nanna serotina per flauto e clavicembalo, protegge il sonno di due giovani amanti nei cui corpi brucia ancora silente un desiderio così intenso da sciogliere persino il cuore gelido del “generale Inverno”.
In The stranger song arpeggi da sirtaki avvolgono nelle loro spire un salmo biblico/picaresco (Giuseppe “in cerca di una mangiatoia”, la parabola del figliol prodigo) in cui la gestualità che accompagna una mano di gioco d’azzardo (“the Holy Game of Poker”) si tramuta in un rituale d’espiazione ai confini del sacro (“amate, dunque, lo straniero perché anche voi foste forestieri in terra d’Egitto”). Sisters of Mercy, fioco concerto per scampanellii di sonagli, bisbigli di mantici e lapilli di xilofono, che allieta sonnolenti squarci di beatitudine celeste intravisti fra le crepe sul soffitto di una casa di tolleranza. So Long Marianne è una cantata tex-mex che sembra una versione tronca e ubriaca di Sad eyed lady of the lowlands. Hey, that’s no way to say goodbye (si, per Dio, è quella della pubblicità e non chiedetemelo più!) è un madrigale per aspiranti suicidi; fra solfeggi corali e contrappunti di scacciapensieri, Cohen mormora come un novello Chatterton alle prese con tintinnanti accenti da trovatore alla Donovan.
Stories of the street, rabbioso cantico di un’umanità prostrata e marginale, è un mirabile monologo vocale che esalta una delle caratteristiche più originali dell’interpretazione di Cohen: il suo contralto “ermafrodita” che spezza le monotonie virili con dolorosi strepiti ai limiti della stonatura, palpiti rivelatori di una complessa emotività femminile. Teachers è una vorticosa profezia orientale, un doloroso vagabondare del Brahma alla ricerca di un compiuto equilibrio fra il mondo della carne e quello dello spirito (“Is my passion perfect?/ No, do it once again”), laddove One of us cannot be wrong è una salace diagnosi della crisi di coppia, frammenti di un discorso amoroso ormai stancamente giunto alle battute finali: nel bel mezzo di personificazioni e oggettivazioni dei sentimenti degne del Cavalcanti, comincia come un beffardo valzer al rallentatore e termina con la voce rotta da un pianto isterico e liberatorio.
P.S. L’eredità di Cohen nel frastagliato arcipelago della canzone d’autore occidentale è un fiume carsico che emerge qua e là dove meno te lo aspetti, l’unico riferimento comune a personaggi fra loro diversissimi come, ad esempio, De Andrè, Nick Cave o Jeff Buckley. Non è questo, tuttavia, ciò che mi preme sottolineare nel poscritto: vorrei piuttosto consigliare al lettore interessato un piccolo e meraviglioso film girato da Robert Altman nel 1971 e intitolato “Mc Cabe e Mrs. Miller” (in italiano “I Compari”): qui Songs of Leonard Cohen non solo viene suonato, pressoché integralmente, nella colonna sonora ma fornisce l’ideale concept che, (liberamente) sceneggiato, scandisce l’evolversi delle vicende. Basta dare un’occhiata alla sequenza iniziale, con Warren Beatty che cavalca faticosamente verso uno squallido bivacco di minatori accompagnato dalle note dolenti di The stranger song, per assaporare una delle più fulgide rappresentazioni dell’universo “coheniano” che mai ci sia dato modo di vedere.
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