Claudio Lolli
Ho Visto Anche Degli Zingari Felici
Claudio Lolli è un po' Nanni Moretti in versione chansonnier (e sfigata, almeno dal punto di vista della visibilità e del successo economico; ma forse anche per la verve, più grigia, più depressa, meno brillante-arrogante).
Nanni è per inerzia il regista della mia vita, e quindi il paragone non lo propongo a caso: entrambi sono etichettati, anzi impacchettati come simboli di una sinistra alternativa, snob, certo colta questo sì ma anche decisamente antipatica. Roba per vecchi reduci, insomma: roba autoreferenziale per pasionari.
Trattasi di male tutto italico: pensiamo che l'orientamento politico depotenzi il valore della musica (e delle parole), quando invece riflettere, schierarsi, prendere posizione, ancorché si tratti di atteggiamenti oggi demodè, è sintomo di intelligenza. "Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare?", chiedeva Gaber, e Lolli / Moretti sono fra i pochi che possono rispondere "Sì".
Trattasi di male italico anche perché confonde, sovrappone idee e propaganda: tutti gli schieramenti politici (specie quello di Lolli) pullulano di gruppi appesantiti da uno sgradevole bagaglio para-ideologico, che suonano come megafoni dell'elettore, anzi dell'uomo medio con la tessera di partito in tasca. Gruppi senza nulla da dire, per farla breve: rassicuranti e vuoti. Questo però non significa che mettere sotto i riflettori attraverso lo sguardo (dis)incantato della persona, che rimane il fulcro di tutto - i rapporti sociali e la storia sia un errore o qualcosa che nulla ha a che vedere con l'Arte (termine che, personalmente, sopporto sempre meno). Il personale è politico, diceva qualcuno, e io replico che l'arte che si occupa anche di politica, quando è illuminata dalla persona, può essere meravigliosa.
Arrivo al dunque: Claudio Lolli mi è entrato nelle vene molto presto, perché non a tutti capita di avere un vecchio che ti mette nel lettore le sue musicassette sin da quando sei in fasce, raccontandoti aneddoti, mettendoti in mano possibili chiavi di lettura, scovando in mezzo al suo pessimismo cosmico ("Un bel mattino ci sveglieremo e capiremo che siamo morti. O che non siamo ancora nati e non nasceremo mai") lampi di speranza, bagliori che saprebbero scaldare di gioia la porta di un carcere.
Lolli non è propriamente l'autore da mettere su alle feste delle scuole superiori (e io ci ho provato eh), eppure è (copyright del vecchio) il poeta laureato della canzone di protesta.
L'archetipo del cantautore impegnato anni '70, forse, ma anche il musicista più atipico e più coraggioso. I suoi testi sono letteratura, ecco, e sono in pochi a potersi fregiare del titolo senza puzzare di accademismo o di noia mortale: sono letteratura vera, perché sono straordinari in termini strutturali, per l'uso sapiente della musicalità delle parole, per l'uso intelligente della figura retorica, per la facilità immaginifica; sono letteratura perché sono di una purezza disarmante, e sanno mescolare come nessun altro società e umanità ("Disoccupate le strade dai sogni", ma anche "Ti ricordi Michel dei nostri soldatini morti?").
Lolli rimane un passo indietro rispetto allo stile forbito dei monologhi infuocati di Guccini, e rispetto a De André è meno cantastorie, più arioso, più imprevedibile forse (chi si aspetta da lui una dedica al grandissimo Gilles Villeneuve?). Lolli non è neppure ironico e spavaldo come Gaber, e infatti non sempre è facile seguire il filo dei suoi brani e dei suoi pensieri, dal punto di vista lirico: Lolli, nei momenti migliori, è un pittore astratto che usa le parole per metterti sotto gli occhi quello che ha dentro ("è vero che il giorno sapeva di sporco"...dalla inclassificabile "Incubo Numero Zero"); siede sul palco accanto agli altri antagonisti, ma rimane in posizione defilata, e non lo puoi rinchiudere, banalizzare ("O per quale libertà? Non ci siamo scontrati ieri senza cena giovani", si chiede amaro in "Tien An Men"). Claudio Lolli è pensoso e supino, ma volta molto in alto.
"Ho Visto Anche Degli Zingari Felici" è un po' "Ecce Bombo" nel suo rovesciamo simmetrico: Lolli non ha il lucido cinismo autocritico del giovane Nanni. Claudio sogna ancora, e la sua musica si gonfia e respira con lui: il lavoro, pubblicato nel 1976, è l'apoteosi e insieme il canto del cigno di un'epoca (quella della gioventù protagonista, più di ogni altra cosa), che, con tutte le sue contraddizioni e i suoi estremismi, rimane liberatoria e rivoluzionaria.
Claudio è la parte migliore di quell'epoca, lontano da ogni violenza, da ogni degenerazione destinata a finire sepolta sotto qualche bomba (lo straordinario atto d'accusa di "Agosto" in tal senso è il momento più alto).
Claudio è Nanni perché, sotto la maschera scostante, nasconde l'intelligenza, la passione e le visioni dei Giganti. Nanni rompe in due la tua anima come pochi altri, forse nessuno, senza risultare gratuito né sgradevole ("La Messa è Finita", "Bianca", forse anche "La Stanza del Figlio"). Paradossalmente, ti ribalta quando non parla direttamente della politica e dei suoi personaggi, ma quando lascia intuire.
Claudio fa lo stesso, ma con più candore: sembra di vedere il suo cuore che gronda sangue, la sua dolcezza disegnata in mezzo al cielo.
I testi sono letteratura, dicevo, perché parlano di vita, e non di politica, eppure sono pregni di Storia: la title-track si contende sino alla linea del traguardo la palma di massima canzone italiana di sempre, per quanto mi riguarda.
Da ogni punto di vista: consta di due pezzi, supera i dieci minuti (echi del recente break progressivo), infila solo di sassofono che segnano la continuità con il fresco movimento jazz italiano (qui suo portavoce è il grande Danilo Tomasetta, multistrumentista di valore). E infila molto altro: reintepreta liberamente un certo Peter Weiss e il suo fantoccio lusitano, confezionando il più toccante atto d'accusa contro il colonialismo sotto forma di commossa rivendicazione. Richiama un oscuro film jugoslavo nel titolo, celebrando come zingari felici i figli migliori dell'eversione sessantottina. Il testo è fra le cose più straordinarie che vi possano capitare fra le mani, e le lunghe e complesse trame strumentali, frutto per la verità più del certosino lavoro dei prestigiosi collaboratori, sono il fiore all'occhiello che trasforma la dedica agli zingari felici nell'anello di congiunzione fra le ambizioni jazz e progressive della musica italiana e l'impegno della canzone d'autore (ma sempre sui generis: nessuno parlerà mai più di poeti che aprono la finestra sbagliata).
Ogni brani fa storia a sé: la lucida tirata di "Agosto", che evoca la strage dell'Italicus (vissuta sulla pelle da Lolli e fidanzata in partenza per le vacanze), è tagliente e mirata ("Nulla è cambiato da quel quarto piano in Questura/ Da quella finestra": come non pensare alla fine atroce del ferroviere Pinelli). "Primo Maggio di Festa" incarna al meglio la sua fluida fusione di personale e politico: la melodia cristallina e tenerissima, la chitarra acustica e i morbidi solo di sax fanno da sfondo a un testo relativamente semplice che si colloca fra i momenti più toccanti della sua carriera ("Che sapore di morte oggi dal Vietnam/ O forse è mio padre, mi confondo"), impareggiabile commistione di vita e di pensiero, di ambizioni social-terzomondiste e di relazioni personali a pezzi.
Il capolavoro assoluto è però la romantica "Anna di Francia", geniale inno all'amore che aggira ogni sciovolone sulle classiche dinamiche del rapporto di coppia, ("Per questa volta almeno sarò la tua libertà"), con tanto di bordata rivolta contro i sofismi astrusi in cui ha il demerito di scadere una certa Intelligencija (E Luigi Nono è un coglione). La sua struttura bifasica (lunghissima e solenne la parte uno, brillante e vitale la seconda) è pura celebrazione progressiva.
Piazza Bella Piazza torna a occuparsi del clima cupo degli anni di piombo, e non risparmia frecciate al veleno a personaggi di spicco (il presidente Leone).
Concludo: raramente la canzone d'autore tricolore tornerà a sondare cieli tanto limpidi e azzurri. Come dicevo: Lolli è cupo ("E' vero, che non ci capiamo, che non parliamo mai in due la stessa lingua") e fatalista (Stavo già aspettando Godot), ma vola molto, molto in alto.
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