Tom Waits
Swordfishtrombones
Come tonfi nel buio, cadono gocce di acqua sporca da una vecchia scala, luci riflesse sull’asfalto bagnato e ombre disegnano lugubri mostri sui muri. Come ogni sera, giungo sino alla fine del vicolo morto, accompagnato dal suono dei passi, mi fermo, osservo il suburbio e ascolto il rumore: una meccanica di rumori.
Esce, questa, come ogni sera, dallo stesso tombino; forse la scoprirò, forse è la notte giusta. Scopersi il tombino, così, come il Lupo della steppa, il mio Teatro Magico, ed entrai in un mondo da cui difficilmente sarebbe stato possibile fare ritorno.
E così, come un organetto a pompa, un bandoneon da rigattiere, un piano a rulli in movimento, questo Swordfishtrombones diviene, in men che non si dica, un punto di non ritorno nella carriera acustica della mia, come penso di ogni, individualità. Se non si è pronti è meglio diffidare, la prima sensazione che gli si deve è quella di un tubo di sfiato che erompe intere nuvole, densissime e grigie, di vapore acqueo in volto, il segnale del vaporetto alla partenza, suonato nelle orecchie.
Dimenticate presto il Tom Waits dei primi tempi, quello della struggente Martha (perla eccezionale che da sola vale l’acquisto di The Heart of the Saturday Night), dell’onirica Grapefruit Moon, della lucernaria Midnight Lullabies e così di molte altre; dimenticatelo, scordatevi tutto.
Già dal titolo scoraggiatevi, lasciate ogni speranza di capirci qualche cosa, sentite già nell’aria l’avvicinarsi di personaggi sghembi, notturni, stralunati, che escono dalle proprie tane, dalle bettole, dai rifugi, e si radunano quando gli altri s’abbandonano alle Braccia di Morfeo, che raccontano storie di periferie, di ponti visti dal basso, di solitudine e esistenze randagie, che non dovrebbero solo affascinare nel loro fascino sbilenco, ma far riflettere. Non va dimenticato, Tom Waits con la trilogia Swordfishtrombones - Rain Dogs - Frank’s Wild Years, di cui quest’opera è la Parte Prima, si delineerà definitivamente, con le proprie incertezze, con le storie marginali che racconta, che raccontano la vita al bordo, come spina nel fianco del glorioso e fierissimo modello statunitense (significativo il bozzetto di In The Neighbourhood).
Queste storie troppo spesso nascoste dagli inutili entusiasmi di una società apparente e vanesia, rimaste per anni sull’orlo del precipizio e della disperazione, vennero con Waits portate sulla scena, agli occhi di tutti, anche di chi non voleva vederle. Nel 1983 si presentò così uno Waits, diverso, redento, un po’ meno personaggio delle proprie canzoni, ma miglior ricamatore, creatore di visioni ancor più cupe e surreali; e se già era parso come naturale prosecuzione del post-Beat, con questa trilogia vennero portati alle estreme conseguenze alcuni aspetti di quella eredità, condotti al delirio, e, allo stesso modo, ne vennero marcate definitivamente le distanze. Prima di entrare appieno nell’opera, è doveroso ricordare almeno gli altri due titoli della trilogia a cui, sino a questo momento, si è fatto riferimento. Rain Dogs (1985) è dal punto di vista della eterogeneità la punta più alta di questo trittico e probabilmente uno dei vertici dell’intera produzione waitsiana.
Seguirà a distanza di altri due anni, Frank’s Wild Years, una stramberia che ha accompagnato negli anni la losca sagoma di Tom Waits, nato come un progetto teatrale, cresciuta come proposta cinematografica affidata alle mani di Jim Jarmusch, approdata, infine, in uno degli album più sensazionali e obliqui che siano passati per le nostre orecchie.
Con questi tre lavori e in particolare con quest’opera prima, Tom, inizia a rielaborare a fondo il proprio stile sonoro, scuotendo, storpiando, sbattendo gli strumenti che vengono rimischiati e perduti l’uno nell’altro, in un meltin’pot da cui solo la voce pare uscire con una linea di registrazione più curata, ma non meno cavernosa. La forma canzone allo stesso modo viene scissa, deformata, fratturata, amalgamata, talora non se ne riconosce neanche l’esistenza, talora a suonare sono strumenti più adatti alla bottega di un artigiano che ad uno studio di registrazione.
Si entra nel tombino e subito si è rapiti da un mondo a luci spente in cui l’aria si fa calda e umidiccia, maleodorante, ricca di aromi, tutti intensi e sgradevoli. Si passa dalla dozzinale Underground, per la livida Shore Leave, sino alle allucinazioni felliniane di Dave The Butcher. Poi, ogni tanto un’apparizione: la luce di qualche fanale taglia il viso contorto di un vecchio derelitto, un muso che digrigna i denti in esprimibili espressioni animalesche, illuminazioni, epifanie tombali. Percorsa questa lunga coltre di buio si sbuca in un grigio cimitero e si ritrova, figura tra le più amate da Waits, un soldato, un soldato coricato sulla tomba dell’amata, a districare con le dita i capelli che ricorda come le fosse dinanzi.
Ed è il momento di Johsburg, Illinois o Soldier’s Things, il momento dell’intimità più raccolta, la grazia che può salvare il cuore. Si sale e si scende per cunicoli suburbani (Swordfishtrombone, Gin Soaked Boy), in un marasma di sensazioni, di sotto e sopra, sobrio e ubriaco (Just Another Sucker On The Vine), urbano e selvatico, deserto e metropolitano. Dipinge con i colori di Chagall e fa parlare i suoi personaggi con le parole di Bukowski e Burroughs, Tom Waits, pare l’unico a saper inventare un universo musicale di rumori paralleli, colto, onirico eppure realistico, gretto, intimamente legato alle realtà più tumide della vita. L’unico a mischiare sentimenti e compassioni, armonie e rumore, rischio e poesia, aspetto non banale quest’ultimo, l’unico a tentare qualcosa di realmente diverso e sinceramente disinteressato.
Chiosa a meraviglia uno dei suoi celebri aforismi: “Preferisco un fallimento alle mie condizioni, che il successo alle condizioni degli altri.” Questo è, ancora oggi, Tom Waits.
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