John Frusciante
The Empyrean
Ogni nuovo disco di Frusciante è in sé un piccolo evento. Un po’ perché Frusciante resta nel bene e nel male uno dei personaggi più interessanti del panorama alternative, capace di rivoluzionare lo stile chitarristico nei Red Hot Chili Peppers e di costruirsi una fortunata carriera da songwriter. Un po’ perché in fondo non si sa mai cosa aspettarsi da uno che in poco meno di una decina di dischi ha mostrato una poliedricità davvero sorprendente, attraversando senza troppe remore pop, rock, post-rock, elettronica, psichedelia, folk, melodie sghembe e bischerate varie.
Un po’ perché realizzare un progetto come quello della Record Collection non è da tutti: sei dischi in poco più di sei mesi, spalmati tra il giugno 2004 e il gennaio 2005, con risultati che sfiorano anche l’eccellenza.
Una tale indigestione di musica che lo stesso John deve aver avuto bisogno di un momento di relax, giusto per prendere fisiologicamente fiato e non morire soffocato dalle note. Ecco allora che in parallelo alla sbornia di Stadium Arcadium trova spazio solo il progetto Ataxia (supergruppo formato con Josh Klinghoffer e l’ex Fugazi Joe Lally) con il delizioso Automatic writing II (2007) e nient’altro fino a questo The Empyrean, per la cui occasione John ha scomodato il solito Flea al basso ma anche un inedito Johnny Marr (Smiths) ad affiancarlo alla chitarra.
La domanda è spontanea: quale Frusciante ci aspetta per questa occasione? La risposta non è così scontata, però una cosa sembra emergere nettamente: una piena immersione nei 70s.
Lo si nota fin dall’incipit, la sublime Before the beginning, incedere slow-core interamente strumentale da cui emerge una chitarra sotterranea che rivanga il Jimi Hendrix di Little wing e prosegue con una grazia tecnica nello stile psichedelico-soft di Dave Gilmour. Le note si trascinano una dietro l’altra riscoprendo il piacere di un puro feedback spalmato su un rettilineo tanto elementare quanto impetuoso. Frusciante rispolvera il piacere di una chitarra puramente rétro assai lontana dallo stile degli Ataxia, più aggiornato alle ultime tendenze. E ciò nonostante il risultato è incredibilmente incisivo e sincero, talmente appassionante da toccare nel profondo del cuore con nove minuti da cardiopalma. Detto in parole povere: una chitarra così non si sentiva da anni…
Una chitarra “piena” che esplode in un blues-rock d’annata si ritrova anche nella robusta Enough of me, mentre Unreachable nonostante una certa maniera vira con successo verso una psichedelia in stile black power.
Siamo comunque lontani dallo stile essenziale e grezzo degli esordi: gli arrangiamenti sono tutti molto ben curati, e capita spesso di avere déjà vu non propriamente esaltanti, forse dovuti anche al fatto che The Empyrean è dopotutto un concept album sulla spiritualità, o qualcosa del genere (basta leggere titoli come God, Dark/Light, ecc.), e quindi un brano come Before the beginning rappresenta più l’eccezione che la regola.
Si rimane invece spesso avvolti in brani liquidi, fluidi, sciolti in soffici teli di tastiere (il pop d’autore di Heaven) o completamente immersi in strutture figlie del post-rock ambientale, come nella sublime cover di Song to the siren: materiale di prima scelta quello preso in prestito da Tim Buckley, eppure Frusciante riesce a dargli una propria marcata identità pur non forzando troppo l’impianto del brano. Non avendo l’ugola della famiglia Buckley tira fuori la voce in maniera soffusa e ne offre una versione suggestiva dagli umori ovattati.
Arrangiamenti sfarzeschi sono all’ordine del giorno anche in After the ending e One more of me, due brani tanto simili quanto opposti: nel primo Frusciante forza a tal punto il falsetto da sfiorare la sofferta androginia di Antony & the Johnsons inserita in una colonna sonora scritta dal Robert Wyatt di Canterbury. Nel secondo invece speziati archi accompagnano una voce baritonale figlia di Scott Walker, tra barocchismi classici e ghirigori strumentali un po’ leziosi.
Prima di arrivare a queste bizzarrie si passa però per due lunghe suite: Dark/Light da ballata piano-voce evolve con basi sintetico-digitali in un intrigante giro gospel-dub che però si perde via inspiegabilmente per minuti (fino ad superare gli otto) dando l’impressione di girare a vuoto. Qualche sbadiglio e l’impressione di un grosso passo falso. Central resta maggiormente in “stile Frusciante” e tra assoli e ritornelli vocali ripetuti sfrutta una cavalcata strumentale ai limiti del noise.
L’impressione è allora quella di un disco fresco, intrigante ed abbastanza eterogeneo da stupire ancora una volta. Con qualche momento morto di troppo però. Peccato perché un incipit come Before the beginning non si sentiva davvero da anni…
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