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R Recensione

7/10

Brunori Sas

Vol 2 - Poveri Cristi

Spernacchiati e derisi dalla critica integralista (ed esterofila) di quest’italietta rigirata su sé stessa a rimirarsi ed incensarsi il fatidico buco del culo, i poveri cristi della musica di casa nostra sono decisamente loro: i cantautori. Ché, giustamente, mica nascono tutti i giorni geni illuminati come Battisti, cantastorie sinceri come Endrigo e Graziani, profeti sovrannaturali come Gaetano e De Andrè, cronisti impegnati come Ciampi e Lolli. Oh, ce ne sia uno vivo. Anzi rilancio: ce ne sia uno morto contento. E via di proverbi e banalità, era meglio quando si stava peggio, non ci sono più le belle canzoni di una volta, le mezze stagioni, l’estate dell’82 eccetera eccetera eccetera. La verità è che viviamo in una nazione vecchia, bigotta e disgraziata, e di canzoni e cantautori come Brunori Sas non possiamo davvero permetterci di fare a meno. E pazienza se manca il synth, la distorsione, o il beat giusto, pazienza se c’è una chitarra, una rima baciata, un controcanto gentile: sane boccate d’aria pulita sperdute in miasmi di flatulenze e catrame.

Dario Brunori, in arte Brunori Sas, è approdato al secondo lavoro della sua carriera, dopo che un paio d’anni fa il suo primo album (Vol 1) ha vinto il Premio Ciampi come miglior opera prima. All’intimismo (concettuale e musicale) dell’esordio risponde questo Vol 2 – Poveri Cristi, declinato in dieci brani di profonda e attualissima semplicità, dieci ritratti di un’umanità moderna, arresa, per questo commovente. La prima qualità del cantautore cosentino sta nell’eleganza lieve con cui racconta storie e personaggi patetici, cogliendone i lati più buffi e compassionevoli, riuscendo con umiltà a criticare ferocemente l’uomo, proteggendo l’individuo. Se il Vol 1 era autobiografico e sussurrato, questo Poveri Cristi possiede un respiro più universale (e non per questo meno intimo), sia a livello di tematiche affrontate che a livello squisitamente musicale, grazie alla divagazione strumentale adoperata come un punto di fuga, un distogliere lo sguardo, come il vortice povero che nel lavello risucchia magicamente l’acqua sporca facendo dimenticare per un attimo quell’altrove di fogna.

Strappa più di un sorriso la vicenda tragicomica narrata in Rosa, sul cui incedere c’è più dell’ombra di Rino Gaetano, peraltro conterraneo di Brunori, che viene alla mente anche nel’iniziale, struggente, Il Giovane Mario, una storia ordinaria pervasa di groppi in gola. Dente è ospite nella stralunata Il Suo Sorriso, forse il brano meno convincente, e Dimartino nella burrascosa Animal Colletti (!), che ricorda la verve sguaiata e sui generis del mitico Ivan Graziani (“non ho una casa, non ho una donna e non ho una cane / non ho nemmeno quattro soldi / per andarmene a puttane… che vita infame!”). Tra filastrocche surreali (La Mosca) e vicissitudini amorose più o meno atipiche (l’arrangiamento elegante di Lei, Lui, Firenze, la coda finale di archi e ottoni di Tre Capelli Sul Comò), brillano delicatissime Bruno Mio Dove Sei (filo di voce e chitarra, nessuno citi Vasco Rossi…) e Una Domenica Notte, ovvero l’una il rimpianto, l’altra la gioia, della normalità.

La dedica alla luna, o a chi per lei, di Fra Milioni Di Stelle chiude un disco ispirato, di nobile attitudine e umile estrazione. Una dedica agli snob, agli acculturati, ai depressi, agli umili e ai perseguitati, ai radioascoltatori, ai festival di Sanremo, ai quartieri malfamati e ai capitalisti borghesi. Una dedica a tutti noi, poveri cristi di una nazione che meritiamo di avere e temiamo di amare.

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