Dente
Io Tra Di Noi
Giuseppe Peveri, in arte Dente, non è affatto antipatico come sembra, anzi. Nonostante l’apparente spocchia da poseur e il portamento da stralunato Piccolo Principe, la sua sottile ironia agrodolce è ricercata, ma inequivocabilmente sincera. Chi avesse assistito a un suo concerto, non può non aver sorriso ascoltando i surreali dibattiti improvvisati col pubblico, né può non aver colto un velo di malinconia appeso dietro occhi grati ma distaccati, appena dopo aver eseguito un pezzo. Diecimila copie vendute (moltissime, di questi tempi) del precedente "L’Amore Non È Bello" hanno esponenzialmente fatto crescere le aspettative rispetto al nuovo lavoro: "Io Tra Di Noi" mantiene inalterata la simpatia/antipatia nei confronti del cantautore fidentino, ma segna, nel solco di una tradizione già consolidata, un piccolo grande passo in avanti, sia dal punto di vista poetico che da quello squisitamente musicale.
Musicale, perché il bravo menestrello di casa nostra si avvale finalmente del prezioso contributo di una band (tra gli altri Enrico Gabrielli e Massimo Martellotta ad arrangiare archi e fiati) e della produzione egregia del sempre ottimo Tommaso Colliva. Poetico, perché Dente, che di cesello sui testi ha sempre lavorato con inarrivabile perizia, trova miracolosamente il modo di stravolgere con la sciabola quella quadratura del cerchio ottenuta in precedenza a colpi di fioretto. In un disco che è enormemente più malinconico e meno ironico del precedente, a risaltare è la freschezza delle basi, l’ariosità degli archi, la spensieratezza degli strumenti a fiato: un ascolto quasi paradossale, in cui forma e sostanza si intersecano in modi spesso sbagliati, restituendo schiaffi e carezze sempre rispettivamente inaspettati. Un ribaltamento della realtà che si esplica in numerose declinazioni all’interno dei brani (“come mai è tutto all’inverso?” ammette Dente nella minuziosa Puntino Sulla i): esempio lampante è la coda finale di Rette Parallele, che, a ritmo di maracas e bossa nova, si aggancia in chiusura del disco all’incipit del precedente album (l’intro “Anima Latina”de La Presunta Santità Di Irene), deridendo qualsivoglia regola di continuità artistica in favore di un casuale avvicendarsi di incontri e abbandoni molto più simile alla vita vera.
Rette Parallele, bellissima, è l’epilogo di un viaggio senza movimento, un danzare sul posto con la mente protesa a recuperare i ricordi da prospettive atipiche, per questo uniche. Delicatissime l’iniziale Due Volte Niente, arpeggiata alla Kings Of Convenience, e Cuore Di Pietra, microscopica perla da quaranta secondi, mentre Piccolo Destino Ridicolo inveisce sarcastica e appena nauseata. Non mancano i giochi di parole, misurati alla perfezione nella circolare Giudizio Universatile, che ribadisce l’essenzialità del punto di vista, e ne La Settimana Enigmatica, tra le cui pieghe si scorge il fantasma dell’anti-musa Irene. Echi dal passato, attualizzati e addomesticati, risuonano in Pensiero Associativo, canzonetta anni ’60 che supera il confine della banalità e mai quello della semplicità, in Io Si, fotografica nostalgia virata seppia, in Da Varese A Quel Paese (Lucio Dalla) e nella straordinaria Casa Tua, immaginifica descrizione della nudità femminile, liriche degne del miglior Battiato e finale convulsamente inatteso. Equilibratissimo, invece, il singolo Saldati, qualche reminiscenza Belle and Sebastian e una costruzione musicalmente perfetta: citando Fabio Codias, “funziona tutto, dall'arrangiamento d'archi alla punteggiatura jazz del pianoforte, dalla chitarra palm-muting alle aperture di metà brano. In tempi più o meno recenti solo i Perturbazione hanno sfiorato questi livelli di perfezione pop.”
Io mi fiderei.
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