Edda
Semper Biot
Un disco è un quadro: lo ascolti e ci vedi un acquerello di Monet, un’opera concettuale di Kandinsky, gli strazi dorati di Munch. Un disco è un viaggio: i ghiacci d’Islanda, i grattacieli di New York, la campagna toscana. Un disco è una storia: consumata tra i carrugi di De Andrè, gli emigranti di Gaetano, il baretto di Gaber. Un disco racconta il presente, il passato, il futuro, nei suoni, nelle parole, negli arrangiamenti, un disco ti parla di casa, o ti spara lontano dal mondo… E poi arriva un disco come Semper Biot di Edda, che non è niente di tutto questo.
Stefano “Edda” Rampoldi a inizio anni ’90 era il frontman di una delle band più importanti (e sottovalutate) che la storia del rock italiano abbia conosciuto, i Ritmo Tribale. Molti musicisti italiani (Afterhours in cima al gruppo) senza i Ritmo Tribale oggi, probabilmente, non esisterebbero, o esisterebbero in modo molto diverso. Edda, leader egocentrico, animale da palcoscenico, dopo anni a ringhiare in giro per l’Italia, scioglie il gruppo (andato avanti un solo disco senza di lui) e, letteralmente, scompare. A posteriori, veniamo a conoscenza della sua vita in India, dell’incontro con la religione Hare Krishna , della tossicodipendenza violentemente superata, del suo nuovo lavoro da operaio (tuttora) in quel di Milano. La lunga chioma non c’è più, la svampita presenza scenica ha lasciato il posto a una timidezza saggia, ad un’umiltà fuori dal mondo. È tornato, Edda, per quanto non è dato saperlo, con un album scritto a quattro mani con Walter Somà, prodotto da Taketo Gohara, suonato con Andrea Rabuffetti e alcuni ospiti, tra cui Mauro Pagani e il suo violino. Fine dei convenevoli, a voi il disco.
Una copertina cartonata, di un pallido beige, un miserabile topastro violetto e la sua ombra, null’altro. Questo disco è una scatola vitrea, e dentro c’è un uomo, colto impreparato, rannicchiato testa tra le gambe, nella sua nuda cristallina intimità. Rigirando la scatola tra le mani il destino è ineluttabile: ogni neo, ogni ruga, ogni ferita sono all’esposta mercé del mondo, proprietario inadeguato del suo corpo, della sua anima. Sono entrato in punta di piedi a contatto con Semper Biot, e la sensazione che ciascun ascolto mi ha lasciato è stata sempre diversa, ma sempre più forte. Ogni frequentazione mi restituisce il timore reale, tangibile, che stia in qualche modo violando quell’intimità, tanto in primo piano, quanto senza difese. Timore di arrivare davvero a comprendere, di restare abbagliato da un flash repentino nell’oscurità brumosa di un vicolo cieco.
Ho paura, oltre che difficoltà, di sembrare inadeguato: Pirandello affermava che non si può raccontare l’infinito, si finirebbe per finirlo. E mi sono perduto tante di quelle volte in Semper Biot (letteralmente “Sempre Nudo”) che ne sono rimasto intrappolato, dentro quest’album, invischiato e compenetrato al punto che non sono capace di raccontarlo. Dovrei uscire da me, e guardarmi annegare, per darvi un’idea chiara di cosa c’è in questi solchi. Edda deve aver avuto la stessa sensazione. Esce da sé stesso e diventa donna, si scruta, si giudica. Non si guarda allo specchio. Si guarda, e basta.
Assume irrilevante importanza descrivere queste canzoni una per una, dire che in tutte sovrasta la chitarra lieve pizzicata di tanto in tanto, la voce belante dalla gola piena di carta di Edda, e poco altro. Non m’importa dirvi che Io e Te parla di un uomo disintegrato da un rapporto violento, con quel violino di Pagani che entra proprio al momento giusto e urla d’agonia. Che senso può avere citarvi l’ironia malata di Milano, l’impenetrabile poesia di Scamarcio, con il pianoforte sfiorato, “giù come un sospiro in fondo al mio piede”? Non crediate che vi servirà a non piangere raccontarvi la sincerità luminosa de L’Innamorato, perché “non c’è rimedio” alla passione cieca di un uomo col cuore in mano. La ninna nanna adulta di Snigdelina, dolcezza di un carillon annaspante nel torbido, l’immaginifica Yogini (“sei tu l’anale dei sogni miei”), la delicatezza paradossale di Amare Te (“essere Dio è una cosa facile, prova tu a fare il mio di mestiere”), tutte cicatrici di cui non vi confesserò.
Si infiamma il ritornello nella disarmante inadeguatezza di Bella Come La Luna, così come lo sfogo della bellissima, accecante Organza, ovvero il rapporto conflittuale con un Dio imperfetto. Sacro e profano continuano a osteggiarsi negli sciami elettrici in feedback che infestano Fango di Dio, e nel minimalismo dell’ironica Hey Suorina. Infine, un tuffo al cuore: Per Semper Biot è il manifesto di una poetica lieve, polverosa, eppure disarmante, una filastrocca in milanese che posta in chiusura fa emozionare, e sospirare, da quanto è bella, sincera, intima.
Faccio ammenda per il mio tentativo sbilenco di riassumere in due righe blasfeme un disco inenarrabile, che è uomo, donna, dio, albero, pietra. Un disco che va oltre i concetti, i paragoni, le canzoni stesse, perché vive tutto insieme, mutilandosi, contraddicendosi, incarnando paure, bisogni, volontà, dispiaceri. . Quel “Lo sai…” con cui si apre vi contorcerà le budella, paralizzerà la lingua, vi gelerà la pelle, turberà il sonno… per lunghi indimenticabili attimi. Poco mi serve leggere che la voce di Edda ricorda una Carmen Consoli isterica sopra la media, che ne paragoneresti lo stile all’ultimo Vasco Brondi, la passionalità a Dente, il lirismo agli Afterhours, perché quest’album per genesi, maturità, ispirazione, resta secondo solo a sé stesso. Procuratevelo, e consumatelo.
“Edda come vorrei. Perché tutto questo volere non diventa energia e non ci spazza via” (Afterhours, Come Vorrei, 1997)
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