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R Recensione

8/10

Francesco Guccini

Signora Bovary

Sono passati vent’anni da “Folk Beat N.1” e Guccini continua a sfornare dischi: l’aveva detto, “ho tante cose ancora da raccontare, per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto”. Ci ha fatto conoscere ubriachi, pensionati, emigranti, eroi del vivere quotidiano: e con questo suo lavoro la galleria di indelebili ritratti si va ad arricchire di nuove, preziose gemme.

Il titolo è evidentemente ispirato ad uno dei più celebri romanzi della letteratura francese:  ma se è vero che raramente nella discografia di Guccini ci si imbatte in veri e propri concept, è altrettanto vero che ad un orecchio attento non può sfuggire un filo conduttore tra le tracce di ogni album, riferimenti nascosti ma proprio per questo ancor più capaci di parlare al nostro inconscio. E allora si scopre che c’è molto del romanzo di Flaubert in questi versi gucciniani: c’è il desiderio di evasione, c’è il gusto tutto romantico di impreziosire una realtà squallida e abusata con le magiche tinte del sogno  del ricordo, c’è quella “nostalgia per il non provato” già trovata nel precedente Guccini.

Si inizia con quello che è a mio parere uno dei pezzi migliori del cantautore, forse il migliore nel suo miracoloso connubio fra musica e testo: “Scirocco” ci proietta in un quadro d’altri tempi, un mondo color seppia in cui si muovono personaggi che sono rapide pennellate di colore e di poesia, uno spessore letterario degno dei migliori episodi di “Radici o di “Via Paolo Fabbri 43” (“Ricordi le strade erano piene di quel lucido scirocco che trasforma la realtà abusata e la rende irreale, sembravano alzarsi le torri in un largo gesto barocco e in via dei Giudei volavan velieri come in un porto canale”). Fin qui solo un’ottima prova di puro cantautorato: ma la musica fa veramente gridare al miracolo. Parte una linea di basso e percussioni, carica di attesa: ed ecco, flebile prima, poi in un crescendo da brividi fa il suo ingresso il bandoneon di Juan José Mosalini. Da lì è un romantico botta e risposta con la voce mai così espressiva del Guccio su un tappeto di basso, chitarra e pianoforte. Un incontro tra due amanti in un “caffè impersonale”, probabilmente un doloroso addio (“e le lacrime si aggiunsero al latte di quel tè e le mani disegnavano sogni e certezze”), versi di pura poesia che si fanno manifesto di un potente quanto tragico slancio verso l’evasione (“ma è meglio poi un giorno solo da ricordare che ricadere in una nuova realtà sempre identica...”).

Signora Bovary” si apre con una parte di pianoforte che ricorda quella di Argentina: uno dei classici affreschi riflessivi a cui Guccini ci ha già abituato a partire dalle “Canzoni di notte, ma qui quello che emerge è un esistenzialismo impregnato di romanticismo, lontano dalle lucide e spietate introspezioni delle gucciniane sbornie (“Ma che cosa c'è in fondo a quest'oggi, di mezza festa e di quasi male”). Dopo pochi versi poi fa il suo ingresso il sax di Antonio Marangolo, che sarà un vero e proprio marchio di fabbrica della produzione del cantautore a partire da quest’album ma soprattutto con “Parnassius Guccinii”.

E che si tratti di un Guccini per certi versi atipico lo si intende bene con la traccia successiva, forse una delle più emotivamente personali da lui scritte (“La provo e poi sono costretto a rimetterla via. Non riesco a farla senza star male e piangere”): “Van Loon” (scrittore e storico olandese del primo Novecento) è dedicata a suo padre, ma è impossibile nell’ascoltarla non fare propri ogni verso, ogni dubbio, ogni domanda. Un’ode struggente ad un rapporto padre-figlio non sempre facile (“Van Loon viveva e io lo credevo morto, o peggio inutile per la distanza / fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d'allora, la mia ignoranza”), ma culminante in un’altissima dichiarazione d’affetto e di amorevole comprensione (“Van Loon, Van Loon, che cosa porti dentro, quando tace la mente e la stagione si dà pace? Insegui un' ombra o quella stessa pace l'hai in te?”). Diverso nel passato ma forse uguale nel presente al pensionato di Via Fabbri, Van Loon diviene attraverso il filtro della fantasia figura eroica per il semplice suo continuo misurarsi con il mondo e con il suo tempo (“che ne sapevo quanto avesse navigato con il coraggio di un Caboto fra le schiume di ogni suo giorno, e che uno squalo è diventato, giorno per giorno, pesce di fiume”). Straordinario, commovente ritratto di una generazione da tutti noi conosciuta ma troppo spesso solo superficialmente sfiorata.

Altrettanto personale è la successiva “Culodritto”, dedicata alla figlia Teresa, una composizione breve ma di grande intensità. Da un commosso sguardo sulla vecchiaia ad uno altrettanto profondo su un vitale squarcio di giovinezza “dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare”, malgrado le necessarie e insuperabili differenze e incomprensioni tra generazioni diverse per mentalità ed esperienze (“anche se non avrai le mie risse terrose di campi, cortile e di strade e non saprai che sapore ha il sapore dell'uva rubata a un filare…”).

Keaton” è una lunghissima cavalcata dal sapore quasi cabarettistico, una cornice in cui si alternano bruschi cambi di tono e di ritmo: l’amara storia di un jazzista “appassionato e puro”, che vive come una macchietta di luce e ironia nei ricordi del protagonista (“S'illuminava poi come di colpo lungo l'effimero consueto di una sera, s'illuminava di una gioia grande quando si avvicinava a una tastiera”) ma che ora è stato vinto dal mondo, dall’alcool e dal cambiare dei tempi (“È come, dice, alla fine del cinema muto, c'è il sonoro, non serve una tastiera...”) . A sottolineare il doloroso contrasto tra passato e presente l’alternarsi strumentale ora di inquieti tappeti di tastiera ora di vorticosi slanci jazzistici tra sax, pianoforte e percussioni.

Le Piogge D’Aprile” è un testo tipicamente gucciniano sul tema dello scorrere del tempo, della nostalgia e dell’evasione: una buona canzone, che tuttavia a mio parere non riesce a non sfigurare nel confronto con le precedenti anche a causa di scelte musicali non proprio ispirate. Allo stesso modo la sbornia riflessiva di “Canzone Di Notte N° 3” soffre del quasi inevitabile paragone con la splendida n° 2 di “Via Paolo Fabbri 43”, pur regalando versi della migliore, disincantata gucciniana ironia (“Esistenza, che stai qui di contrabbando… ne abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire... Noi, se si muore solo un po' chi se ne fotte, ma sia molto tardi che si va a dormire...”).

Non un disco perfetto, dunque: ma a parere del sottoscritto “Signora Bovary” rappresenta l’ultimo grande album della produzione di Guccini, che a partire dal successivo “Quello Che Non…” ma soprattutto da “Parnassius Guccinii” continuerà a regalare perle inserite però in album spesso sovraccarichi di riempitivi e di episodi decisamente trascurabili. Ma questo “Signora Bovary” resta un classico del cantautorato italiano, con alcuni tra gli episodi più intensi regalatici dall’artista emiliano dai tempi di “Via Fabbri”.

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Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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FrancescoB (ha votato 7,5 questo disco) alle 18:14 del primo luglio 2013 ha scritto:

Volevo votare il disco 7 cazzarola (

Comunque trovo la recensione molto ben costruita, e il lavoro è apprezzabile. Meno coeso e inteso di "Stagioni" e di "Via Paolo Fabbri", ma il Guccio quando la sa, la sa.

Giuseppe Ienopoli alle 11:46 del 15 gennaio 2014 ha scritto:

... a proposito di Culodritto ... in "Vacca d'un cane", secondo libro di Guccini, per la figlia Teresa c'è anche una dedica che recita "Con la speranza che i figli dei gatti mangino i topi" ... a voler rafforzare la speranza che i figli ci somiglino, ma senza volere, né tanto meno pretendere, di insegnare loro alcunché ... "Culodritto cosa vuoi che ti dica? Solo che costa sempre fatica / E che il vivere è sempre quello, ma è storia antica".

Mi sembra una piccola grande lezione di pedagogia ... ho sempre imparato molto dai testi di Guccini e anche per questo non mi permetto di esprimere un voto sui suoi dischi ... e poi appartengo alla scuola di pensiero per cui un autore si accetta per stima e in maniera totale senza discriminare le cose proposte che apparentemente o effettivamente appaiono inferiori alle altre ... è semplice gioco di chiaroscuro ... non ti pare?

rubenmarza, autore, (ha votato 8 questo disco) alle 12:35 del 15 gennaio 2014 ha scritto:

RE

hai ragione, guccini poi a mio parere è tra i pochi cantautori con la c maiuscola che sono stati capaci di scrivere testi straordinariamente attuali per un'intera carriera (penso a Cirano o a Don Chisciotte, o la recentissima Su in collina). Il voto poi è sempre espressione personale e banalizzante di quello che la musica ci risveglia dentro...ah e comunque, rispondendo a un tuo commento su altra recensione, pensavo anch'io di scrivere qualcosa su Amerigo, altra grande tappa del percorso gucciniano

Giuseppe Ienopoli alle 12:49 del 15 gennaio 2014 ha scritto:

... vai Ruben! ... c'è bisogno di esplorare e Amerigo lo sapeva!

Hai la mia benedizione ... lacio drom!

dissonante (ha votato 7,5 questo disco) alle 22:50 del 21 aprile 2015 ha scritto:

A mio avviso l'ultimo Guccini degno di nota è proprio questo qui. Dal successivo "Quello che non" si avvierà un'involuzione senza uscita, con appena qualch episodio felice di tanto in tanto. Ma quello di Signora Bovary è ancora un Guccini meraviglioso. Momenti migliori: la sottovalutata "Le piogge d'aprile" (uno splendido anticlimax tipicamente gucciniano) e la conclusiva "Canzone di notte n.3", la migliore tra le canzoni di notte.

Giuseppe Ienopoli alle 21:03 del 22 maggio 2020 ha scritto:

@Ruben o a chi ne fa le veci ... Amerigo ha voglia di esserci finchè non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo.