Giorgio Gaber
Io non mi sento italiano
Giro giro tondo, cambia il mondo
Il Signor G ci ha lasciato la mattina di capodanno di quasi 9 anni fa, ma è più attuale di qualsiasi altro prodotto made in italy mi sia capitato a tiro in questo lungo periodo.
Anche con il suo manifesto-testamento, Io non mi sento italiano, che oggi più di ieri suona freschissimo, trascinante, commovente.
Facciamo un passo indietro: Giorgio Gaber è uno fra i grandi autori della canzone tricolore, uno fra i pochi che hanno saputo aprirle strade nuove, inventarsi una poetica assolutamente personale; è il pioniere e l'interprete più sublime del teatro-canzone, l'intellettuale anti-conformista e anarchico per eccellenza.
Impossibile inquadrarlo, definirlo, catalogarlo: certamente è figlio della contestazione e della swingin' Milan degli anni '60 (di cui rappresenta uno fra i volti di primo piano, accanto agli amici Celentano e Jannacci), certamente è un prodotto di quel particolare humus culturale che ha dato origine alla stagione più felice della nostra canzone d'autore.
Ma rimane fondamentalmente un solitario, uno spirito libero, un innovatore cocciutamente incamminato lungo sentieri personali che se ne frega completamente di ogni tipo di moda (sia questa la musica politicizzata che, a volte, nel corso degli anni '70, assume i contorni di una sgradevole forzatura; oppure la melodia preconfezionata che infesta i vari Sanremo con i suoi sentimentalismi da quattro soldi; o ancora la musica da supermercato proponataci più recentemente da talent show e simili).
Gaber è il poeta della semplicità: il suo linguaggio è diretto, purissimo, limpido come un cielo d'estate sempre blu. Ma non assume mai i contorni della predica né si crogiola fra banalità assortite che parlano solo ad un pubblico di convertiti (come ahimè fa da tempo buona parte della nostra scena indie, incapace dal mio punto di vista di produrre un autore veramente significativo, un poeta che abbia da offrire una visione propria - giusto Emidio Clementi rappresenta un'importante eccezione).
Non è aulico né ricercato come le rime erudite dell'amico Francesco Guccini, né il suo lirismo assume i contorni dell'invettiva avvelenata; non è intriso del surrealismo amaro e inconoclasta di Rino Gaetano.
Neppure costruisce una solennità quasi storico-religiosa, arricchita dalle metafore celestiali che innvervano la produzione di Fabrizio De André: eppure Gaber è profondo e toccante come questi autori.
Come gli altri grandi, è capace di un umorismo fulminante ma sempre elegante e leggero; e riesce a muovere corde profonde con una semplice intuizione.
Si avverte fra le pieghe della sua arte anche l'importanza degli chansonnier d'oltralpe, da Leo Ferrè a George Brassens, e soprattutto, ovviamente, il consumato attore teatrale Jacques Brel (tanto da modellare anche la gestualità su quella del genio belga), perché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il cantore del popolo degli umili, degli emarginati e dei disadattati.
Li tratta sempre senza condiscendenza, ma con il rispetto dovuto ad ogni essere umano e con un'ironia leggiadra e dolcissima: e così i personaggi che ravvivano la Milano popolare delle periferie diventano i protagonisti di storie dal respiro universale, diventano affreschi degni dei capolavori di un Caravaggio.
Riccardo che ama il biliardo ed il Sig. Cerutti Cino, che gli amici al Giambellino chiamavan Drago, sono destinati a segnare la memoria collettiva per sempre. Sono fotografie ingiallite eppure sempre attuali di un mondo che, senza il Sig. G (ed alcuni colleghi) era destinato a rimanere per sempre lontano dagli altari delle cronache, a sguazzare in una subalternità senza rimedio, a perdersi fra strade e palazzoni di second'ordine senza che nessuno ne evidenziasse la straordinaria carica umana.
Io non mi sento italiano, pubblicato postumo nel 2003, racchiude tutto ciò, è il Signor G in tutte le sue sfaccettature ed in tutto il suo lirisimo immaginifico. "Io non mi sento italiano" è il disco di un nobile eversore.
Ogni pezzo meriterebbe un'approfondita analisi che qui, anche solo per motivi di spazio, risulta difficile collocare.
Ma lasciatemi celebrare alcuni momenti di una bellezza straziante, le vertigini che parole assolutamente comuni possono provocare se incastonate nei testi del Sig. G.
Il tutto è falso è un'amara riflessione sulle contraddizioni senza speranza della contemporaneità, e si divincola fra la paura del mondo che verrà lasciato ai nostri figli, l'orrore per una tecnologia totalizzante che ci sta privando del respiro, e guarda poi a problematiche universali.
Alle storture del mercato, alle guerre ed alle sofferenze più atroci che il nostro fascismo edonista ci costringe a vivere come fossero un romanzo giallo, calpestando anche quel briciolo di umanità che ancora ci resta (tema ripreso nella meravigliosa C'è un'aria, sprezzante e sarcastico ritratto del mondo dei nostri media: E cè un gusto morboso del mestiere dinformare, uno sfoggio di pensieri senza mai lombra di un dolore e le miserie umane raccontate come film gialli, sono tragedie oscene che soddisfano la fame di questi avidi sciacalli).
Non insegnate ai bambini è subilme ode all'infanzia degna di un Federico Garcìa Lorca, e prende a sassate ogni forma di prematuro abbruttimento, dettato da una morale stanca o dalla manìa di indossare uniformi ed imbracciare armi contro il nemico di turno, che avvelena il nostro clima culturale sin dalla più tenera età.
Giro giro tondo, cambia il mondo è la definitiva celebrazione del potere liberatorio ed eversivo dell'età mitica per eccellenza, e fa scorrere pesanti brividi lungo la schiena ogni volta.
Si prosegue sulle corde straziate de Il Dilemma, sofferto ritratto dei dubbi che possono corrodere le storie d'amore e concludersi nel modo più tragico. Ritratto di ampio respiro e privo di stoccate velenose: qui Gaber è commosso e delicatissimo, e non usa mai la mano pesante.
Da ascoltare sono anche la divertita Il Corrotto, che è sia sculacciata a certi facili moralismi che tetra raffigurazione di un mondo scarnificato ove tutto è merce, ed ovviamente anche il sesso; così come la filosofica I mostri che abbiamo dentro, riflessione austera sull'eterno dualismo dell'animo umano ricca di spunti che potrebbero valorizzare, quasi da soli, la carriera di tanti presunti cantautori di oggi e di ieri.
Ho volutamente lasciato un po' di spazio per la celebre title-track, che rappresenta la definitiva dichiarazione d'indipendenza senza limiti e compromessi del Sig. G. (Mi scusi Presidente, se arrivo all'impudenza, di dire che non sento alcuna appartenenza), inno alla libertà ed al valore della vita in quanto tale (così come Se ci fosse un uomo), senza stecchati, barriere, inni e bandiere: semplicemente, l'uomo al centro di tutto.
Non è un inno anti-italiano (anche perché oggi una simile affermazione evoca subito sgradevoli camicie verdi): anzi, prende accoratamente le difese della cultura e della storia del belpaese, quando serve per fronteggiare luoghi comuni beceri e razzismo invertito (Mi scusi Presidente ma forse noi italiani per gli altri siamo solospaghetti e mandolini. Allora qui mi incazzo son fiero e me ne vanto, gli sbatto sulla faccia cos'è il Rinascimento). Ma sa leggere fra le righe la retorica scialba e vuota che circonda le celebrazioni dell'inno e del nazionalismo più insulso.
La musica è ovunque un elegante, discreto tappeto di archi (e sporadicamente fiati) che evidenzia e valorizza le parole di Giorgio. Giusto la title-track è più movimenta, una marcia spassosa e ricca di colori e sfumature, piccola gemma di ritmi ed incastri ingegnosi.
Gli arrangiamenti sono in ogni caso puntuali, misurati, puliti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'autore che si rispetti, sta proprio nella fusione equilibrata fra la sua intensità lirica ed il paesaggio ove parole e concetti prendono forma.
In pochi hanno saputo coniugare un ibrido paragonabile a quello del Sig. G: ed allora che il nostro anarchico possa inventare ed emoziare anche da lassù, che le sue parole siano una boccata d'aria fresca per tutti quelli che stanno riposando accanto a lui.
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