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R Recensione

6,5/10

Flavio Pirini

Canzoni di spessore

Flavio Pirini ha tenuto banco incontrastato nei giovedì milanesi, per tre stagioni consecutive, con lo spettacolo ANNI ’10 – circa intorno quasi teatro canzone, ospitando ogni settimana artisti del mondo della canzone e del cabaret (circa centoventi nomi, tra cui Cochi Ponzoni, Banda Osiris, Flavio Oreglio, Alberto Patrucco, Diego Parassole). Uno spettacolo che fin dal titolo dichiarava le radici di questo cantautore, radici musicali e teatrali, coniugate al meglio dal cabaret milanese nato negli anni sessanta da artisti quali Enzo Jannacci, Cochi e Renato, e il Giorgio Gaber inventore di quella forma di teatro che unendo canzoni e monologhi lui stesso definirà Teatro Canzone.

Oggi, dopo aver calcato i palcoscenici con importanti e diversi spettacoli musicali – teatrali, Pirini si presenta con un lavoro puramente cantautorale, un disco di canzoni, dove però i contenuti si rifanno a quella forma di cabaret, canzoni dove sono sempre presenti l’ironia e lo scherzo, usati però non solo per pura comicità, ma anche per far riflettere su argomenti importanti. Come dice di se stesso, Pirini scrive canzoni serie anche allegre e canzoni comiche anche amare, impresa spesso difficile, in cui aiuta una buona dose di autoironia. Parte quindi col piede giusto l’artista milanese, ironizzando già dal titolo del disco sulla pretesa di far canzoni serie (Questa è una canzone di spessore, anche se fino a qui non si è detto niente, ma basta mettere un accordo minore, oppure il bar, per darle il giusto ambiente). Il brano title track, un rock blues guidato da una bella chitarra elettrica, colpisce la pretesa trasgressività di molti colleghi che finisce poi spesso per diventare il più classico dei conformismi. Pirini conosce l’arma dell’ironia molto bene (i 40 secondi di punk di A me non interessa sono irresistibili), ma le cose funzionano al meglio quando i temi si fanno seri, quando si tratta di indagare su temi sensibili, che toccano i diritti individuali delle persone. Così in La mia famiglia, un veloce funk rock, si indaga sul  concetto di famiglia come oggi è nella realtà, e su quello che invece una certa morale comune vorrebbe imporre, mentre in Testamento, un brano intenso e teso, l’autore riesce ad originale trattando il difficile tema dell’eutanasia come atto estremo di libertà dell’individuo.

Il lato più leggero e (auto)ironico emerge in Canzone rara, un valzer, molto gaberiano nel suo intercalare strofe cantate e dialogo parlato, in Caramella, esempio di leggerezza e grande musica, con un ottimo assolo di chitarra finale, e nel funky jazz Ho un sacco di difetti. Un lavoro che si fa apprezzare anche per l’aspetto musicale, capace di passare dall’atmosfera quasi notturna, da jazz club, che fa da sfondo alla malinconia di Dopo l’estate, al pop leggero di A vent’anni, dallo swing di Canzone degli assenti (elenco di cose che c’erano e non ci sono più), impreziosita da un bel violino, allo slow jazz di Nessuno può, per chiudere con i ritmi in levare di Reggae, dove la musica fa da contraltare ad un testo intimo e profondo.

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