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R Recensione

7/10

Toby Driver

They Are The Shield

Ma chi ce la fa più a star dietro a Toby Driver, detta in tutta onestà? Non passa che qualche mese ed eccolo indaffarato dietro ad un nuovo progetto, perso fra le anse di un’esigenza artistica insopprimibile, il cui impulso principe e destinazione finale sono parimenti imperscrutabili. È un aspetto che sembra irritare molti: per chi scrive, invece, complice una certa fascinazione per l’ignoto e per le personalità irriducibili a schemi di pensiero predati, è semplicemente stimolante. Driver non è un semplice musicista: vive di musica, il che è diverso. La pensa, la medita, la sogna, la mangia, ci dorme, ci impregna ogni fibra del proprio essere. Così, dopo la seconda inaspettata giovinezza dei Kayo Dot e la resurrezione della ragione sociale Stern (da poco usciti col nuovo “Missive: Sister Ships”), l’attenzione sembra essere stata devoluta alla continuità di una carriera solista rianimata a sorpresa – dodici anni dopo l’ostico esordio “In The L...L...Library Loft” – con l’obliquo e levitante “Madonnawhore” (2017), di cui questo “They Are The Shield” si propone di essere l’ideale seguito ideologico.

Piaccia oppure no, l’originalità del processo creativo che sottostà alle creazioni di Driver non può essere messa in discussione. Ancor meno questionabile è l’abilità ultraterrena del polistrumentista di disegnare armonie dotate di un’articolazione fuori dal comune, una predisposizione naturale a disporre pattern melodici in sequenze e posizioni mai predicibili, in perpetuo movimento. È un dono che, col passare degli anni, si rafforza anziché indebolirsi. La tripletta d’esordio di “They Are The Shield” si pone fra le invenzioni più luminose ed emozionanti dell’intero canzoniere di Driver, qui eccezionalmente cristallizzato in un fermo immagine tra canzone colta e innodia sacra, fra Canterbury e romanticismo. Il build up di “Anamnesis Park” è una coltellata a cuore aperto: le parziali sovrapposizioni in slow motion tra i violini di Conrad Harris e Pauline Kim hanno il malinconico, irripetibile retrogusto dell’autunno che muore, prima che l’ingresso solenne degli ovattati synth di Driver li coinvolga in una decadente danza folk, un vorticoso crescendo su cui galleggia assorto il rapsodo. Il dramma – come in una versione umana dei Tartar Lamb – cresce in “Glyph”, sul cui finale sfilano onirici arabeschi d’archi, la sezione orchestrale del fu Antony prestata al goth (peccato solo per il pedestre accompagnamento ritmico). I garbati 6/4 su cui si modula l’elettrica di “470 Nanometers” ricreano infine – in versione wave-pop – scenari astrali vicini agli ultimissimi maudlin of the Well, quelli delle magnetiche riletture sinfoniche di “Part The Second”.

Per quanto assurdo possa sembrare, l’esperimento non solo funziona: conquista. È proprio allora che si manifestano i problemi sostanziali, un cronico difetto di tenuta strutturale che, storicamente, affligge molto del materiale di Driver: intima e toccante è ancora la forma canzone aperta di “Scaffold Of Digital Snow” – tra volteggi melodrammatici, arpeggi sottovuoto e la splendida voce di Bridget Bellavia –, ma già piuttosto vicina alle stranite Ringkomposition di “Plastic House On The Base Of Sky” è l’estenuante “Smoke-Scented Mycelium” e “The Knot” (per sola voce, violini e il piano di Kelly Moran) è un nudo bozzetto teatrale à la Scott Walker che, nel tentativo di apporre la firma d’autore definitiva, suona semplicemente irrisolto, a metà servizio.

Sembra ormai assodato che, ad accompagnare l’ascolto di un disco di Driver, intervenga ad un certo punto un meccanismo pavloviano di autodifesa, che impedisce di arrivare fino in fondo all’essenza della scrittura del suo autore. Noialtri, diligenti, accettiamo di stare al gioco. Ma quanto all’infinito può essere rimandata la resa dei conti?

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