Toby Driver
They Are The Shield
Ma chi ce la fa più a star dietro a Toby Driver, detta in tutta onestà? Non passa che qualche mese ed eccolo indaffarato dietro ad un nuovo progetto, perso fra le anse di unesigenza artistica insopprimibile, il cui impulso principe e destinazione finale sono parimenti imperscrutabili. È un aspetto che sembra irritare molti: per chi scrive, invece, complice una certa fascinazione per lignoto e per le personalità irriducibili a schemi di pensiero predati, è semplicemente stimolante. Driver non è un semplice musicista: vive di musica, il che è diverso. La pensa, la medita, la sogna, la mangia, ci dorme, ci impregna ogni fibra del proprio essere. Così, dopo la seconda inaspettata giovinezza dei Kayo Dot e la resurrezione della ragione sociale Stern (da poco usciti col nuovo Missive: Sister Ships), lattenzione sembra essere stata devoluta alla continuità di una carriera solista rianimata a sorpresa dodici anni dopo lostico esordio In The L...L...Library Loft con lobliquo e levitante Madonnawhore (2017), di cui questo They Are The Shield si propone di essere lideale seguito ideologico.
Piaccia oppure no, loriginalità del processo creativo che sottostà alle creazioni di Driver non può essere messa in discussione. Ancor meno questionabile è labilità ultraterrena del polistrumentista di disegnare armonie dotate di unarticolazione fuori dal comune, una predisposizione naturale a disporre pattern melodici in sequenze e posizioni mai predicibili, in perpetuo movimento. È un dono che, col passare degli anni, si rafforza anziché indebolirsi. La tripletta desordio di They Are The Shield si pone fra le invenzioni più luminose ed emozionanti dellintero canzoniere di Driver, qui eccezionalmente cristallizzato in un fermo immagine tra canzone colta e innodia sacra, fra Canterbury e romanticismo. Il build up di Anamnesis Park è una coltellata a cuore aperto: le parziali sovrapposizioni in slow motion tra i violini di Conrad Harris e Pauline Kim hanno il malinconico, irripetibile retrogusto dellautunno che muore, prima che lingresso solenne degli ovattati synth di Driver li coinvolga in una decadente danza folk, un vorticoso crescendo su cui galleggia assorto il rapsodo. Il dramma come in una versione umana dei Tartar Lamb cresce in Glyph, sul cui finale sfilano onirici arabeschi darchi, la sezione orchestrale del fu Antony prestata al goth (peccato solo per il pedestre accompagnamento ritmico). I garbati 6/4 su cui si modula lelettrica di 470 Nanometers ricreano infine in versione wave-pop scenari astrali vicini agli ultimissimi maudlin of the Well, quelli delle magnetiche riletture sinfoniche di Part The Second.
Per quanto assurdo possa sembrare, lesperimento non solo funziona: conquista. È proprio allora che si manifestano i problemi sostanziali, un cronico difetto di tenuta strutturale che, storicamente, affligge molto del materiale di Driver: intima e toccante è ancora la forma canzone aperta di Scaffold Of Digital Snow tra volteggi melodrammatici, arpeggi sottovuoto e la splendida voce di Bridget Bellavia , ma già piuttosto vicina alle stranite Ringkomposition di Plastic House On The Base Of Sky è lestenuante Smoke-Scented Mycelium e The Knot (per sola voce, violini e il piano di Kelly Moran) è un nudo bozzetto teatrale à la Scott Walker che, nel tentativo di apporre la firma dautore definitiva, suona semplicemente irrisolto, a metà servizio.
Sembra ormai assodato che, ad accompagnare lascolto di un disco di Driver, intervenga ad un certo punto un meccanismo pavloviano di autodifesa, che impedisce di arrivare fino in fondo allessenza della scrittura del suo autore. Noialtri, diligenti, accettiamo di stare al gioco. Ma quanto allinfinito può essere rimandata la resa dei conti?
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