Michel Polnareff
Michel Polnareff
La copertina mi aveva tratto in inganno: ti vedi questo biondo capellone di profilo, mentre maneggia la sua preziosa amica a sei corde, e ti immagini un epigono di Brassens, o magari un altro accusatore tutto fiero cipiglio e seriosa intensità, in stile Ferré.
Niente da ridire su questi due artisti (enormi), ma Michel Polnareff è proprio un'altra roba.
Non mi interessa stilare graduatorie: Michel è semplicemente diverso, un pezzo unico non solo in Francia, e tanto mi basta per sponsorizzarlo per bene anche su queste pagine.
A metà anni '60, la chanson muove passi prodigiosi in direzione meta-pop. Può rivaleggiare da pari a pari con le novità degli eterni nemici d'oltremanica in termini di produzione e di sonorità, oltre che compositivi.
Serge Gainsbourg e il suo naso affilato sono i capofila della nuova generazione.
E Polnareff di origini russofone come lui - un po' gli assomiglia: è certamente più giovane e più beatnik (tanto che si dichiara pacifista), ma risulta a sua volta scomodo, oltraggioso, eccentrico. Meravigliosamente pop. Ma anche folk. Ma anche acido e psichedelico.
Se la canzone che Serge dedica ai lecca-lecca mettendola in bocca a una ragazzina stralunata - sfugge alle reti della censura, il giovanissimo Polnareff è meno fortunato: L'Amour avec toi è troppo esplicita e forse in odore di pedofilia per passare in radio.
Poco male: basta attendere il disco di debutto, che Michel dedica a sé stesso, per restare incantati.
L'autore porta la chanson su piani diversi, tanto che viene difficile identificarli tutti: una appiccicosa linfa pop scorre ovunque, e rende il disco incredibilmente godurioso, accessibile.
Ecco, per prima cosa Polnareff è un superbo melodista, esattamente come Gainsbourg: ma se Serge sussurra, sulfureo e decadente, Michele scolpisce veri e propri inni.
Michel disegna ritornelli su ritornelli come se fosse un epigono dei Platters, o della migliore tradizione soul-pop d'oltreoceano (penso anche allo straordinario Smokey Robinson, raffinatissimo cultore dell'hook immediato; ma forse dovrei pensare più che altro a Lennon e McCartney, specie a quest'ultimo, per la classicità plastica delle invenzioni melodiche).
Come se non bastasse, Michel inietta nelle sue composizioni ambizioni progressive e psichedeliche scoperte, ancorché virate in direzione folk: le sue intricate costruzioni armoniche sospingono in sostanza ariose ventate di melodia, risultando sorprendentemente vitali.
L'amore con te, con la chitarra e il mandolino che intessono un dialogo fitto ma limpido, è il gustoso preludio: una melodia pulita che sale di tono prima che il ritornello la sgonfi, contorniata da arrangiamenti ricchissimi, forse ispirati dalle nuove idee partorite da Brian Wilson e dai Fab Four nel medesimo periodo.
Il testo è una provocazione naif: a Michel non importa molto ciò che dicono società e morale, vuole solo amoreggiare con questa giovincella (e la lei in questione potrebbe essere sua cugina, o magari una modella sopra una rivista; oppure potrebbe avere qualcosa come 14 anni).
Love me, Please Love me, con la sua commistione linguistica anglo-francese e il memorabile solo di piano, è il pezzo più immediato, una pop song arrangiata in modo certosino e sopraffino (gli interventi calibratissimi del violino), che non ha neppure bisogno di un ritornello classico per stamparsi in testa (preciso meglio: di fatto il ritornello è la strofa, e viceversa, e quindi non è semplicissimo orientarsi).
Le doti vocali di Michel sono notevoli, al di sopra della media dello chansonnier: i suoi acuti ai limiti del falsetto e le note prolungate sono appannaggio dei cantanti veri (si ascolti anche la serenata folk Ballade pour toi, in cui si avverte peraltro un forte senso drammatico, quasi in odore di folk dell'apocalisse - diciamo dei Camus leggermente meno bizzarri).
Ci sono io sotto quella stella? si chiede a un certo Polnareff, e manco ti sei accorto che siamo al terzo-quarto ritornello (anche qui, decisamente atipico ma) immortale del disco, incastonato in un folk-rock robusto che cambia continuamente passo.
"Ballade Pour Un Puceau" è invece una novelty in lo-fi ante-litteram, che richiama tanto i Godz quanto Blind Willie McTell, a conferma dell'ibrido internazionalismo di Michel (ascoltare per credere, in materia, il ruvido singolo "Beatnik", che sembra uscito da qualche session di una rumorosa band di rock demenzial-sperimentale, di quelle che facevano innamorare il giovane Lester Bangs)
Le impennate della melodia restano in ogni caso il marchio di fabbrica del genio transalpino, anche nel beat scatenato e chiaramente bealtesiano - ma parlo dei Fab Four in versione allucinata - di You'll Be On My Mind, che viaggia a braccetto con L'oiseau de nuit, arrangiata però in modo più barocco.
Non mancano neppure echi della psichedelia west-coast, versante ruvido, peraltro: basti ascoltare la melodia vagamente jeffersoniana e la chitarra grattuggiata della splendida "Time Will Tell" (l'ennesimo disegno melodico irregolare).
In conclusione, una sopraffina ventata di freschezza e di originalità beat, in odore di folk acido-progressivo, porta la canzone d'autore francese a sondare cieli azzurri e luminosissimi (quasi tutti i brani suonano autenticamente e atipicamente gioiosi!).
Per questo, siamo proprio dalle parti del capolavoro immortale.
Contributi di Matteo Losi
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