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R Recensione

7/10

Guano Padano

2

Provate ad immaginare, una volta calativi nei panni sacrificali di un tifoso medio del Bayer Leverkusen, il timore reverenziale che vi avrebbe incusso scorrere l’undici titolare di un Barcellona che, da lì a novanta minuti, avrebbe ridotto a brandelli la vostra squadra del cuore, sputando sulle vostre perpetue illusioni di trionfi insperati. Metartisticamente, scorre giù per la spina dorsale lo stesso brivido nel nominare, uno ad uno, i membri dei Guano Padano. Ché un po’ di vanesia, specie se non voluta e tantomeno cercata, non può far male. Ed allora desideriamola, per una volta. Il tizio barbuto, brizzolato e con un paio di ingombranti occhiali dalla montatura di plastica è Danilo Gallo, e per chi mastica un po’ il jazz nostrano, o semplicemente è aduso alla storica “Take Five, jazz e dintorni” sherwoodiana, potrebbe certo finire qui: sotto le sue mani crollano i bassi elettrici ed acustici, si plasmano i ritmi, si cercano le divagazioni solistiche. Motore principale del progetto è Zeno De Rossi, uno cresciuto con l’utopia di diventare portiere dell’Inter, fregando pannelli termoisolanti da cantieri vicini per poter suonare nelle mansarde di amici, e finito ad elevare le sorti del melting pot “colto” tricolore negli aspri meandri del Tonic newyorchese: roba da mettere in ginocchio chiunque. Ma, ecco: ascoltate. Non è Marc Ribot quello che strimpella, anche se con lui condivide lo stesso destino di fidato collaboratore di Vinicio Capossela, il gusto dell’arrangiamento (da spartire con Nicola Manzan ed Enrico Gabrielli, a completare il triumvirato d’eccellenza) e qualche scappatella nell’orchestra retrò di Mike Patton. Ha solo trentun anni, enormi capacità strumentali ed un curriculum spaventoso alle spalle, Alessandro “Asso” Stefana. Accomodatevi, vi prego: possiamo cominciare.

Chi non si perde in fronzoli è il benvenuto. L’esordio del 2009 si chiamava, touché!, “Guano Padano”: il seguito, a tre anni di distanza, “2”. Diceva, il grande poeta, che un bel tacer non fu mai scritto, ma che bisogno c’è di ulteriori parole? Parlano la credibilità, l’onestà artistica, la competenza: qualità ormai rare. La musica del power trio non difetta in nessuna di queste categorie, ed è a ragion veduta che, cambiando l’ordine degli addendi, la somma non cambi. Altro disco francamente spettacolare “2”, allora, e certo non perché – non solo – accontenti gli universi cinematici dei più esigenti, sintetizzi spaghetti western da epopea anacronistica o si lanci in razzie e scorribande d’ordinanza. Il discorso, come la vita, si evolve. Bastano tre minuti per capirlo, quando la suggestiva didascalia pianistica in Cinemascope di “Last Night” si scioglie nel country-surf di “Zebulon”, con le campane a lutto di Sergio Leone e la polvere accecante della music romance zorniana. È un accenno, minimo quanto – per certi versi – sprezzante, alle potenzialità teoricamente illimitate degli orizzonti dei Guano Padano che, se da una parte conservano, dall’altra innovano. Il marchio di fabbrica del clamoroso atto primo non tarda ad imprimersi in molti dei dagherrotipi del suo successore: “Bellavista”, con steel guitar, violino e banjo, rievoca Nashville, laddove invece proprio “Nashville” si perde, piuttosto, fra tramonti di chissà quale vagheggiata America (o dei crepuscoli sotto le mura di Noale?), “El Coyote” sceglie la strada di una lacrimosa lontananza prospettica e “One Man Bank” scalfisce uno stomp-blues infestato dal theremin – che Vincenzo Vasi sia più di un semplice presagio? – con tanto di ipotetica dedica, ante tempore, al padano per eccellenza.

A sbalordire, in realtà, è tutto il resto. Non per cosa dice, sia ben chiaro, ma per la nuova autorità con cui lo fa. Iniziando dal pirotecnico Oriente tarantiniano che, in “Miss Chan”, sulla scia della vecchia “Epiphany”, divampa di quella stessa fiamma a suo tempo propiziatrice dei migliori episodi di Electric Masada: hard rock incendiario aguzzato da frammenti etnici. “Gumbo” è slow-core per fiati, piano e chitarre, brano di centratissima caratura che sembra uscito dal songbook dei Ronin. “Lynch” mantiene tutte le promesse che la suggestiva titolazione stuzzica, corollando con distonici fraseggi noir un down tempo trip-hop da Club Silencio, preda di sax fumosi e delle emicranie di Fred Madison. In “Prairie Fire”, Mike Patton ulula alle Chinatown e ride ai riflessi dei lampeggianti: collaborazione più intrigante sulla carta, che riuscita nella trasposizione concreta, ma nondimeno stimolante, per l’emergere di una tagliente personalità pulp sinora sconosciuta all’avanzare rustico dei Guano Padano. Il capolavoro, già nell’aria, si materializza – con teatrale ribaltamento finale – nelle movenze della mini-suite “Un Occhio Verso Tokyo”, un clamoroso saggio di accademia che supera la dimensione della soundtrack ed annienta le proprie ingessature per procedere, spedito, verso un sofisticato tripudio di apparati cool, sostrati jazz ed elegantissimi fraseggi acustici.

Per inciso, lo scorso 7 marzo, il Barcellona umiliò il Bayer Leverkusen 7-1, con cinquina di Lionel Messi. I Guano Padano hanno, ora, tutte le carte in regola per fare altrettanto.

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