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R Recensione

8/10

Johnny Cash

With His Hot and Blue Guitar

Ho un sogno ricorrente: c’è quest’uomo, è solo e vestito di nero. Ha uno Stetson in mano e la chitarra che gli cinge le spalle. Aspetta l’ultimo treno di mezzanotte. La stazione è scura e silenziosa come il sangue nel cuore di una vedova morta. E quando il profilo rincagnato del locomotore sbuca dietro l’ultima curva, ad annunciarlo è uno stridio di corde e non di convogli, di bassi e non di bielle, di rullanti e non di rotaie. Quella che sbuffa su in alto è una ciminiera insufflata di note e non di carbone. Cigolando i raggi s’arrestano a metà dell’ultimo giro, le porte si aprono verso l’esterno e l’uomo, prima d’essere inghiottito nel ventre della carrozza buia, si ferma un istante sulla predella e mi sorride:

Hi, I’m Johnny Cash

Chi ne conosce il verbo apocrifo così com’è tramandato dai vari (e notevolissimi) American Recordings forse stenterà a crederlo, ma già alla fine degli anni ’50 Johnny Cash era, con Chuck Berry, Carl Perkins e Roy Orbison, una delle più eminenti figure rock del decennio.

L’anello di congiunzione fra i cantastorie della frontiera e i “ribelli senza una causa” di Jimmy Dean. Il vero erede di Hank Williams e l’antesignano dei folk singer elettrici della decade entrante.

Il predicatore laico della devianza giovanile e della frustrazione erratica che scaturisce da un’ infanzia segnata dal dolore e dall’abbandono (Cash perse il fratello maggiore in un incidente alla segheria e da quel momento i rapporti col padre furono tutt’altro che idilliaci, tanto da accogliere i tre anni di servizio di leva come una liberazione), in una società arida e marginale dove, come scriverà Springsteen parecchi anni dopo, “They bring you up to do like your daddy done”.

In questo senso: padre putativo del punkabilly (Jeffrey Lee Pierce) e del grunge (Mark Lanegan). In Cash, tuttavia, la vena antisociale che fu di Hank Williams è temperata da una sorta di stoicismo (o di superomismo) quasi “londoniano”: i personaggi delle sue storie, sebbene consapevoli di infrangere i precetti della legge (e della morale) comune, non tentano nemmeno di sottrarsi all’inevitabile castigo, anzi lo rivendicano orgogliosamente come una ferita di guerra, un doloroso marchio d’ onore, si lasciano condurre nei meandri concentrazionari in cui hanno indirizzato le loro vite, perché solo chi cade, in fondo, può risorgere e il profumo dei fiori che vi sbocciano sovrasta sempre il lezzo che li concima. Sue, senza dubbio, le liriche più schiette, profonde e avvincenti prima dell’avvento dylaniano.

Ma sto divagando, torniamo alla musica e agli ’50: With His Hot and Blue Guitar è il massimo compendio della sua scapigliatura giovanile, il disco d’esordio e il primo full lenght di un artista della Sun Records, di cui contiene tutti i singoli di maggior successo (Folsom Prison Blues, Cry, Cry, Cry, I Walk The Line). Razzente, drammatico, essenziale, indelebilmente graffiato dal suo baritono - al tempo stesso: impassibile, glaciale, fervente d’umanità e di vita vissuta - e dal ritmo ferroviario, tranciante come un treno in corsa, imposto dalla sezione ritmica dei Tennessee Two (Luther Perkins e Marshall Grant).

Rock Island Line è un ponte panoramico che attraversa quasi trent’anni di OTM, condensando in due minuti giusti il talkin’ folk/blues di Leadbelly (autore del pezzo), l’andatura cowboy di Gene Autry e le accelerazioni sfrenate del rockabilly di Presley e Perkins (nel ritornello), coi microassoli aguzzi e fulminei che si proiettano nello schermo del futuro fin quasi a preconizzare (si parva licet) l’ hardcore delle campagne. In I Heard That Some Whistle Blow, Cash non solo piega il suo flessuoso baritono in omaggio allo yodelin’ di Hank Williams ma si appropria dell’originale in modo così convincente da renderlo di fatto inscindibile dal suo canzoniere: compaiono qui due delle ossessioni che lo accompagneranno per tutta la carriera, i topoi della ballata ferroviaria (nel 1960 Cash realizzerà un concept album che rilegge la storia d’America attraverso i treni) e di quella carceraria (i live Folsom Prison e San Quentin segneranno forse l’apice della sua parabola artistica), il fischio del treno come pungolo della coscienza e onomatopea del rimorso (“I heard that lone wow-wow whistle blow”) e la cupa rassegnazione nell’affrontare le conseguenze dei propri sbagli (“just a kid acting smart / i went and broke my darling’s heart / (…) They took me off to Georgia Main / locked me to a ball and chain”). If The Lord’s Willing e soprattutto I Was There When It Happened mescolano la profanità dell’ hillbilly alla solennità del gospel, mostrando già come quello religioso sia un retaggio profondo e tormentato che riapparirà più volte, in tempi diversi, nella vita dell’ “uomo in nero” (che, poco più che adolescente, incise un album intitolato “My Mother’s Hymn Book”).

Il primo brano autografo, Country Boy, hillbilly moderato in cui Cash traccia un arco fra modernità e tradizione, fra la nostalgia delle campagne dell’ Arkansas da cui proviene e la consapevolezza che quella “valle dell’Eden”, forse, esiste solo nei suoi ricordi, ci introduce al cuore pulsante del disco: Cry, Cry, Cry, il suo primo grande successo, nel quale, con sensibilità inedita per l’epoca, narra la storia di un marito infedele dal punto di vista della sua donna, e poi due classici, l’agghiacciante confessione di Folsom Prison Blues, ancora treni e prigioni, una discesa nei più bassi gironi del delitto e della predestinazione (“when i was just a baby, my mama told me son / always be a good boy don’t ever play with gun / but i shot a man in Reno just to watch him die”), senza scusanti, senza espiazione (“far from Folsom prison that’s where i want to stay / then i let that lonesome whistle blow my blues away”), che avrebbe fatto la sua figura anche in un disco dei Gun Club o in un romanzo di Edward Bunker, e I Walk The Line, lancinante nella sua assoluta semplicità, costruita sul solito sferragliante “boom-chicka-boom” che, per la prima volta in una canzone country, contempla anche il rullante, e su una progressione di accordi in cui ogni strofa, preceduta dal muggito sommesso di Cash, viene intonata ad un’ottava inferiore rispetto alla precedente.

So Doggone Lonesome aggiorna la desolazione sentimentale di Hank Williams al romanticismo sofferto della “gioventù bruciata”, che riecheggia anche nell’incidente mortale di The Wreck Of The Old 97 (la quale, peraltro, con la sua prosa asciutta e cronachistica, si stacca nettamente dal filone lacrimoso delle “teenage death song” che seguiranno, tipo, non so se avete presente, Last Kiss di Eddie Cochran o Tell Laura I Love Her di Ray Peterson). Da segnalare, inoltre, nelle ristampe più recenti, l’aggiunta di altri due brani degni di nota: Hey Porter, un discreto successo del 1954, ennesimo capitolo ferroviario su un figliol prodigo che fa ritorno alla terra natia, e Get Rhythm, ottimistica apologia del rock’n’roll come antidoto al malessere sociale, vicina per spunti e sonorità a certi brani coevi di Chuck Berry.

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Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 9 voti.
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Cas 8/10
rael 8/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 10 questo disco) alle 23:14 del 4 settembre 2008 ha scritto:

JOHNNY CASH E' DIO.

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 0:07 del 5 settembre 2008 ha scritto:

madonna che recensione! e che disco, ottimo! però all'epoca (e anche oggi) dovette sembrare molto più "avanti" il rock'n'roll sfrenato di Chuck Berry...

TheManMachine alle 11:16 del 7 settembre 2008 ha scritto:

Splendida recensione, eccellente introduzione ad una delle figure fondamentali del rock'n'roll. Sempre grandissimo Simone!

FrancescoB (ha votato 8 questo disco) alle 8:49 del 3 ottobre 2009 ha scritto:

Recensione straordinaria, Simone è un fuoriclasse, poco da fare. Ah, pure il disco ovviamente merita.

hiperwlt alle 9:12 del 3 ottobre 2009 ha scritto:

La prima parte di questa recensione e' pura poesia, caro simone.

simone coacci, autore, alle 10:49 del 3 ottobre 2009 ha scritto:

Siete troppo gentili. Vi ringrazio di cuore.

Suicida (ha votato 7 questo disco) alle 10:52 del 20 dicembre 2013 ha scritto:

Simone ne sa, bella recensione piena di spunti. Il disco non lo trovo così seminale, ma fa la sua parte.

Utente non più registrat (ha votato 4 questo disco) alle 9:57 del 6 giugno 2020 ha scritto:

Ho sempre pensato che per amare Cash occorre una buona dose di feticismo. Non ho ancora cambiato idea.