Townes Van Zandt
Townes Van Zandt
Ve lo leggo negli occhi, quindi non mentite: siete stufi dei cantautori.
Non sto scherzando: piacciono a tutti quelli che dalle mie parti si definiscono berlinesi bresciani, perché portano scarpe inequivocabili e una leggera barba incolta. E se ne vanno in giro sproloquiando di poesia e di Grandi Messaggi e di Musica d'arte vs. Musica d'intrattenimento.
Va bene, lo ammetto: un pochino rientro nella categoria, ma involontariamente, perché nel mio cuore tutto voglio fuorchè iscrivermi al partito.
Quindi, non sono uno snob, ma ho deciso ugualmente di celebrare un altro cantautore (sì, le disgrazie non vengono mai da sole).
Perché merita davvero, e qui sono letteralmente serissimo: niente musi lunghi, allora, ma solo un'ammirata venerazione.
Quella di Townes Van Zandt è letteratura in sette note, la sua anima da Poeta Visionario e Sensibile, anche se l'idea di vederne un altro alla fine è irritante e insopportabile, è quanto di più toccante vi possa capitare di incontrare su disco, quindi per una volta non vi concedo di storcere il naso.
La sua è la musica dell'anima, e non solo perché si intravede lo spettro del soul nelle intense arcate melodiche, ma ache perché è grazia interiore allo stato puro.
La sua ricca vena lirica si sposa ad un baritono delicato, che si perde dentro cascate di immagini personali e sofferte, che apre crepacci nel nostro cuore per radicarci dentro l'intimismo del suo mondo.
Townes non ha il piglio dei cantautori di protesta: il suo tono malinconico e fatalista prelude a lunghe riflessioni che analizzano, anzi dissezionano il rapporto di coppia, e più in generale le relazioni umane (date un'occhiata alla copertina, al suo sapore domestico e apparentemente sereno: avrete una vaga idea del personaggio).
Tutto si racchiude in parabole meste e umili, e l'uso confidenziale della prima persona accentua ulteriormente l'atmosfera introversa e pensosa delle composizioni, quasi si trattasse di una seduta di psicoanalisi che si sublima nello smarrimento e nella desolazione della musica country.
Townes è un musicista texano e la sua produzione, inevitabilmente, mostra un legame fortissimo con la sua terra: il suo country, finemente arrangiato ed estremamente ricercato sul versante creativo e melodico, è radicato nel clima rurale e abbagliante delle sue terre d'origine.
Non parlo solo di Texas: il sound è figlio del Grand Canyon e degli spazi ariosi del Midwest; si avverte l'eco di Guy Clarck, di Willie Nelson, di Jerry Jeff Walker, ma la tenue malinconia evoca forse più le voragini esistenziali di Gene Clark, o di un Neil Young meno schizofrenico e acido della media.
"Townes Van Zandt" vede la luce nel 1969 ed è un capolavoro. Punto. Comprenderne la fragilità, la potenza evocativa, forse non è seplicissimo, ma risulterà totalmente appagante. E' sufficiente la sbalorditiva freschezza del suo talento melodico, ma se volete intestardirvi e cercare di toccare la forza delle sue liriche siete i benvenuti.
"For the Sake of the Song" è il lungo preludio, sospeso e raffinatissimo, con la chitarra che vibra nel vuoto e Townes che sgretola ogni forma di resistenza in un lungo addio. "All that she offers me are her chains/ And I've got to refuse", perché l'amore può essere ingombrante, e allora è inutile fingere ("And I don't intend/ To stay here and be the friend from whom she must hide"). Ma può essere che Lei canti solo per liberarsi, non è la tristezza che le fa vibrare le corde vocali: "And who do I think that i am/ To decide that she's wrong?". Le domande che frullano nella testa sono eterne, non trovano risposte, non trovano pace
Altrove gli arrangiamenti mostrano reminiscenze rock e suonano meno spettrali, lo spazio sonoro diventa più vivido: "Fare Thee Well, Miss Carousel" è una sernata country-rock satura di romanticismo ("I'll stand outisde your window/ And probably call your name"), movimentata e poliedrica nella struttura ritmica.
Altrove affiora una solitudine eterna che barcolla sull'orlo del precipizio, vicina a quella che irradia "Pink Moon": provate "Waiting araound to die", ma anche la dolcissima "I'll be here in the morning" ("Close your eyes I'll be here in the morning/ Close your eyes I'll be here for a while"), che prova a stemperare a furia di ricordi il terrore per gli abissi che si profilano all'orizzonte.
"Colorado Girl" oscilla purissima, il suo arco melodico "spezzato" è fra i più leggeri e distesi dell'opera. Ancora meglio farà "Don't you take it too bad", che si addentra ancora una volta nei complessi meccanismi del rapporto di coppia e prova a semplificare, a spiegare, a distendersi finalmente redenta ("And a man needs a woman/ To stand by his side/ And whisper sweet words/ In his year about daydreams/ And roses and playthings / And the sweetness of springtime/ And the sound of the rain").
Il dibattito su quale sia il disco migliore del texano è aperto, ma personalmente non credo ci sia gara. Non c'è mai stata: solo qui l'ispirazione veleggia altissima in ogni momento.
I cantautori quindi sanno essere fighi e incisivi, quando l'intelligenza lirica irradia ogni singola nota.
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