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R Recensione

7,5/10

Veronica and the Red Wine Serenaders

The Mexican Dress

Capita di rado a chi fa rock in Italia di ottenere  importanti riconoscimenti all’estero. Ha fatto quindi clamore lo scorso hanno la notizia del premio ricevuto dagli italiani Veronica and the Red Wine Serenaders quali vincitori dell'European Blues Challenge. Un premio arrivato a coronamento di una lunga carriera, che ha visto Veronica Sbergia e Max De Bernardi impegnati a confrontarsi in maniera impeccabile con un repertorio lontano nel tempo ed anche geograficamente, quello dell’America pre bellica, cioè le radici più profonde degli U.S.A., country blues, ragtime, folk, old time music. Un repertorio molto particolare e circoscritto, che lascia poco spazio alla fantasia reinterpretativa, ma che la band lombarda sa trattare nel migliore dei modi.

Per questo quinto album Veronica Sbergia (voce), Max De Bernardi (chitarra) e Dario Polerani (contrabbasso) hanno chiesto l’aiuto di alcuni ospiti d’eccezione, e per la prima volta si sono cimentati anche in composizioni originali. Ed è una di queste che apre e intitola il lavoro, The Mexican Dress, uno swing jazz sostenuto alla ritmica dal contrabbasso, che si alterna al solo della chitarra. Crying Time è invece una ballad lenta, molto anni '50, quasi uno slow jazz d'atmosfera, che dimostra anche la capacità di passare con estrema semplicità da un genere all'altro, e le grandi doti di interprete di Veronica Sbergia. Una mano alla composizione la dà anche Denny Hall, leader degli americani The Nite Café (ospite al mandolino, bouzouki e cornamusa), autore di Didn't Mean a Thing, un brano tra country e blues, dove troviamo un bel gioco tra le due voci maschile e femminile, e gran lavoro delle due chitarre acustiche, la ritmica che tiene il brano e la solista che cesella. Sempre dalla penna di Denny Hall arrivano Gloryland, in cui si resta nel regno del country, con il raddoppio delle voci nel ritornello, e le due chitarre che si rincorrono, e la sorprendente Curse the Day, ballad acustica dall’atmosfera folk irlandese, grazie anche al suono della uillean pipe di Denny Hall.

Con Weed Smoker's Dream si entra nel regno delle dodici battute, un bluesaccio introdotto da un'armonica sporca, Veronica canta da consumata blueswoman, la chitarra si immerge nel fango del Mississippi e ne esce un blues acustico degno dei grandi classici degli anni '20. Si rimane nelle viscere dell'America più blues con Dope Head Blues (di Victoria Spivey) dove la voce della Sbergia e l’ukulele introducono il brano, seguiti dall’entrata della chitarra dobro, e con il blues acustico di Banana in Your Fruitbasket.

Non mancano i toni più vicini al jazz, come in Caught Us Doin' It, un brano veloce, tendente quasi allo swing, semplice ma dall'allegria contagiosa, o nel puro swing di When the Music Sounds Good con una grande prova di Max De Bernardi alla chitarra, e di Who's That Knocking at My Door, con una splendida Sbergia alla voce, e il clarinetto, che da un tocco anni '30, tra swing, ragtime e vaudeville.

Scavando sempre più in fondo alle radici della musica americana, la band si imbatte in Shine on Harvest Moon (brano degli anni '10 del novecento), una slow ballad solo voce e chitarra, Loan Me Your Heart (brano di Papa Charlie Jackson), con il banjo ed un bel solo di clarinetto, ancora tra il jazz e il ragtime, e il gospel rurale di Paul and Silas, un brano tradizionale che ci riporta nel puro suono delle radici americane, tra folk, country e blues, dove una chitarra e un rullante bastano per riempire di note l'aria, e la voce di Veronica che raddoppia quella di Max nel ritornello, ottima voce oltre che gran chitarrista, che nello strumentale autografo The Resurrection of the Honey Badger dà sfoggio di bravura e perizia tra slide e steel guitar.

Veronica Sbergia, Max De Bernardi e Dario Polerani, coadiuvati dagli ospiti Massimo Gatti al violino, il già citato Denny Hall, Joel Tepp al clarinetto e Tom Hume contrabbasso, ci regalano un disco appassionato, dimostrando grande talento, padronanza e conoscenza della materia, riuscendo a calarsi perfettamente in quel suono che è alla base delle radici del rock, come se fosse  il loro linguaggio musicale da sempre.

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