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R Recensione

6/10

Vanessa Peters

The Burn The Truth The Lies

Chiamasi dogma ciò che, per sua intrinseca definizione, non può essere messo in discussione. Il pensiero comune impone, per silenziosa accettazione, che di un cantautore si ascoltino prima le parole e, come appendice secondaria, la loro messa in musica. Di un menestrello, d’altro canto, non si guarderebbe la marca di scarpe, o il taglio di capelli: si presterebbe attenzione all’intonazione, alla posa, all’inflessione, al contenuto. Per poter pretendere di “ascoltare” qualcosa, ciò nonostante, bisogna dapprima passare per il medium della comprensione: e qui son dolori. Chi avrebbe mai la pazienza di sciropparsi booklet fitti di testi arabescati, già difficili da decrittare per chi si nutre di anglicismi, e figurarsi i poveri mortali che l’inglese lo masticano a livello prescolare? Tanta grazia è ormai difficile a concedersi persino all’uomo di Duluth. Eccolo, insidiosamente implicito, il secondo dogma, consequenziale. Così, con la scusante di giudicare un’intera poetica, si finisce puntualmente per accendere i riflettori sulla musica.

Proviamo ad andare oltre? Proviamoci. Non che con Vanessa Peters, d’altro canto, rimanga molto altro da fare. Intestardirsi su elucubrazioni attorno al suo gusto tipicamente americano per l’arrangiamento di minimali germi melodici voce ed acustica non aiuterebbe a definire il centro del giudizio su un’artista che, prima ancora di essere musicista, è scrittrice. Ogni suo album, senza timore di smentite, è disco e libro insieme. Una bipolarità avanzata messa in luce dalla raccolta di istantanee di “Little Films” e, ancora di più, nel meta-concept omerico di “Sweetheart, Keep Your Chin Up”, raccolta di canzoni sul continuum cronologico delle epopee del microglobo di Itaca, entrambi scritti con il supporto dei fiorentini Ice-Cream On Mondays come backing band. Si sviluppa ulteriormente la trattazione tematica, ora, in “The Burn The Truth The Lies”, nuovo lavoro della cantautrice di Austin, Texas, da qualche anno ritornata nella città natale dopo un lungo periodo passato in giro per l’Europa e, in pianta stabile, in Italia.

Un esempio, fra tanti. “The ferocity of the big bad wolf / Disguised as a little lamb / The monstrosity of how easily you said to me / You certainly hoped I’d understand / And it was a simple, foolish attempt / At getting me to see the light / As easy as kissing my cheek / Then telling me goodnight” è l’evocazione di metafore semplici, concetti basilari, amori traditi e fraintesi, con una voce femminile nell’accezione delicata e timida del termine ed uno scheletro country-folk qua e là acceso da scintille elettriche e da una più profonda linea in slide. Tutto semplice, in apparenza. Al contrario, invece, “The State I’m Living In”, perfetta operazione singolo, prende forma e vive attraverso le sembianze di una short story letteraria indisgiungibile da uno sfavillante talento narrativo che impreziosisce, direttamente, il leggero stomp piano-chitarra-batteria di “A Good Judge”, i crescendo emotivi di “Favorite Day”, alimentati da accordi arpeggiati e da un’essenziale apparato d’archi (gli stessi che si ripresentano nel respiro introspettivo di “Good And Ready”, una Shannon Wright addomesticata che vien dalla campagna) ed il pop rock radiofonico di “String Too Short To Use”, Aimee Mann arruolata alle musiche dell’immaginario sequel di “Magnolia” senza la zavorra anagrafica della carta d’identità.

Il rischio, semmai, è che la voluta uniformità della scrittura, solo a tratti spezzata da sussulti di diversificazione stilistica, dettagli sparpagliati in un ordinato quadro generale, come per l’elettricità pulita dell’assolo di “This Could Go Well” o l’armonica a bocca che ulula ai crocicchi nell’ampio racconto midtempo di “No Decision” (“And the downtown traffic, the corner stores / The streets, all slick with gritty rain / I could swear I’ve been here before / ‘cause every city looks the same / Now that everything’s changed”), ristagni in momenti di staticità fattuale che fanno irrimediabilmente perdere mordente ed andamento al disco. “The Burn The Truth The Lies” non si emancipa, in questo, dai predecessori ma, anzi, calca ancor più la mano sulla medietà espressiva e sulla lentezza espositiva in themselves, mettendo in risalto tutti i difetti di una formula che sempre gioca senza mai rischiare, talvolta esagerando in prudenza (“The Sting”, “Copilot”) e facendo perdere credibilità ad un coerente percorso artistico che invece, al contrario di molti altri, di credibilità ne meriterebbe, e parecchia.

Arrivando, con questo, a sconfessare il terzo dogma, seppellito dall’abitudine: che ad ogni storia si associ, per forza di cose, l’ordinarietà.

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