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R Recensione

7/10

Des Moines

Like Freshly Mown Grass

Sia stramaledetto nei millenni che non ci saranno il riscaldamento globale, bestia infame che mi impedisce di godere di una delle ultime gioie rimastemi in vita – l’autunno, i suoi sublimi colori, gli aromi penetranti che certificano il passaggio delle stagioni e l’inizio del processo di inesorabile decomposizione della natura. Ora non viene più data via di mezzo: è cocente estate tardiva o rovinoso trapasso nelle tropicali bombe d’acqua, un’alternanza di opposti che nel nordest dei veri valori (come, ad esempio, il #cemento o i #schei) si prefigura nientemeno che come inferno in terra. Per fortuna che rimane la musica, e con essa il potere di generare fiction alternative dal letame della realtà. Si possono, si devono sognare autunni diversi, futuri contingenti in mondi possibili: spingersi oltre il crinale del proprio orizzonte, alla stregua del Kerouac di On The Road – scrittore minore, detestabile e tutto sommato poco originale, ma capace come pochi altri di dar voce all’anelito di ricerca che si muove sotto l’epidermide degli inquieti e dei malinconici.

Proprio dalla rubina epifania kerouackiana di Des Moines sembra muovere la penna cantautorale di Simone Romei, uno che – giusto per dare l’idea del personaggio – nel 2015 ha esordito con un disco eponimo stampato in cinquanta copie. Un tesoro volutamente nascosto e misconosciuto (che tesoro sarebbe, altrimenti?) in cui riservatezza ed introspezione fanno il paio con una cifra stilistica ben definibile e ben lontana dall’Italia: il folk prebellico, quello inglese a cavallo tra ’60 e ’70, l’american primitivism. Anche oggi, con il sophomoreLike Freshly Mown Grass”, graziato dall’illuminata ed illuminante produzione di Egle Sommacal ed impreziosito da un sostanzioso parco ospiti al servizio delle embrionali intuizioni chitarristiche di Romei, il quadro di riferimento non sembra cambiare più di tanto. Il violino di Emanuele Reverberi e il violoncello di Samuele Riva accarezzano con lirismo il fingerpicking drakeiano di “Afternoon Sun”, brano essenziale ma scritto ed interpretato molto bene: nelle successive proiezioni à la Glorytellers di “Happy Smiles” intervengono la shuti box di Mali Yea e il mandolino dello stesso Sommacal; “Crickets And Cicades” si muove infine al rallentatore, fra stridori di pentatoniche e soavi aperture armoniche, qualcosa tra Fahey e Kaki King (sebbene non a quel livello di elaborazione tecnica). Se l’omogeneità è ancora un pregio, Des Moines ne è uno dei suoi profeti contemporanei più acuti, anche quando il livello sale (il Drake di “Bryter Layter” imbastardato con suggestioni classiche sul lungo drone di tampura di “Wood Gathering”) o scende (la title track conclusiva, una lunga ed intensa strumentale che riassume gli umori dell’intero disco, è costruita con una tecnica di sovrapposizione di quadri singoli che dà ancora un’impressione collagistica troppo forte).

È evidente che le sinestesie, le associazioni mentali, l’approccio sensoriale sono fattori determinanti ed imprescindibili per l’ascolto e l’assimilazione di dischi del genere, preziosi per ciò da cui sono messi in moto prima ancora che per ciò che mettono in moto. Alcuni scorci contrastivi (il passaggio da elegia romantica ad ecloga folk in “Daffodils”, la squillante sacralità di “Love In Vain” che cede il passo ad una narrazione del quotidiano) mettono semmai in evidenza che la voce, specialmente questa voce, è un elemento aggiuntivo sacrificabile all’economia di una scrittura di per sé già autonoma. Il terzo capitolo, in proiezione ideale, potrebbe assumere i crismi del classico contemporaneo.

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