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R Recensione

7/10

Gionata Mirai

Nelle Mani

La prima volta che mi sono realmente accorto della bravura di Gionata Mirai – un’autentica, folgorante epifania – è stato durante quello che doveva essere il centesimo ascolto del mio pezzo preferito de Il Teatro Degli Orrori (che, per inciso, è questo). Che fosse bravo l’avevo sempre saputo, ma intendiamoci: quando parlo di “bravura” non conto il numero di note per secondo. Mi riferisco, piuttosto, a cosa viene suonato, come viene suonato, quanto viene suonato: da qui la scintilla per un brano di profondità lirica assoluta, che accosta sezioni umorali anche diametralmente opposte fra di loro e partorisce una sintesi (con)vincente. Il messaggio, oltre la forma, è centrale nello stile del chitarrista mantovano: e centrale è l’interesse per l’armonia del risultato finale, anche quando la direzione da seguire è chiaramente disarmonica. In più, come già scrivevamo all’epoca nella recensione di “Allusioni”, fino ad oggi Mirai è stato l’unico in grado di comprendere e sfruttare pienamente le possibilità sottese all’utilizzo della dodici corde in un ambito acustico, apparentemente lontano da quello della band madre ma, in verità, ad esso complementare.

Le difficoltà dell’esordio, legate soprattutto ad un’impostazione ancora acerba e ingessata, vengono oggi elegantemente superate nel sophomoreNelle Mani”, uscito ad aprile, in sordina, nella sorpresa generale (approfittando dello iato contestuale del TDO e di quello, ormai decennale, dei Super Elastic Bubble Plastic). Se l’Italia, come già avevamo avuto modo di dire e scrivere, abbonda di eccezionali strumentisti ed interpreti della sei corde (la lista è lunga, da Egle Sommacal ad Adriano Viterbini, passando per Stefano Pilia), Mirai non è certo il primo nome a saltare alla mente quando si parla di fingerpicking. Il che non significa che il suo contributo sia marginale: tutt’altro. La sua prospettiva, che dispone le irruente passioni giovanili in una morfologia tutto sommato classica (gli oscuri orientalismi di “Aleppo” hanno una forza in grado di smuovere le montagne), è assolutamente unica nel panorama tricolore: e anche quando il linguaggio si fa più convenzionale (la placida percussività silvana di “The Fisherman”, il tecnico bluegrass di “My Sweet Potato”, la levità narrativa di “Pan Di Zucchero”), il tocco rimane sempre riconoscibilissimo.

Passi in avanti ben visibili, allora, e oltremodo saldi. I risultati migliori si hanno quando le due anime di Mirai, quella prona alla riflessione odeporica e quella dedita ai crescendo implacabili, si compenetrano senza apparente difficoltà: succede in “Metallo” (cascate di arpeggi cristallizzate in singoli accordi folk), “Ieri” (una prima parte di intensa meditazione, quasi à la Francisco Tárrega, si rovescia in una cavalcata infranta da torrenti di semitoni) e “Fandango” (quasi memore del primo Thee, Stranded Horse). Tra gli originali, due reinterpretazioni: il passo cadenzato, quasi chiesastico, del traditional sardo “No Potho Reposare (A Diosa)” e lo scheletrico studio di americana rurale dell’irlandese “Pretty Girl Milking A Cow”.

Sorpresa assai gradita. Bravo, Gionata!

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