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R Recensione

7/10

Kaki King

The Neck Is A Bridge To The Body

Si sdrucciola sul crinale del paradosso, ambendo a parlare di “The Neck Is A Bridge To The Body” senza avere mai visionato lo spettacolo nella sua integralità, conditio sine qua non indispensabile per capirne i presupposti. Ancor più e ancor prima che assoluta protagonista del commento sonoro, l’Ovation Adamas 1581-KK di Kaki King è l’anello centrale della visionaria produzione multimediale curata da Glowing Pictures (già al lavoro con Animal Collective, David Byrne, TV On The Radio fra gli altri), la sei corde sul cui corpo si scompongono, ricompongono, riflettono e proiettano immagini, frame, colori, lampi. Lo strumento che ripensa sé stesso, lo strumentista che crea materialmente ciò con cui suona, la sinestesia allo stato più intenso. Chi ha assistito ad una delle date di supporto al progetto (che ha esordito col botto lo scorso 6 marzo, alla BRIC House di Brooklyn, NY, passando poi – tra novembre e dicembre – anche per Bologna, Torino, Pordenone, Livorno, Catania, Cava de’ Tirreni e Roma) ne è stato assolutamente rapito. L’assoluta originalità della proposta, peraltro, è una fedele testimonianza di come le quotazioni della Katherine donna e musicista siano nuovamente decollate, dopo lo splendido “Glow” (2012): un fortissimo segnale di autoaffermazione, di grande coraggio. Una stabilità mentale e professionale ritrovata.

Questa soundtrack, allora, pur non arrivando alle eccellenze del summenzionato “Glow” (né per eterogeneità stilistica, né per effettiva qualità del materiale), riassume alla perfezione la plurivocità di una chitarrista che, nel suo essere straordinariamente dotata, non per questo è schiava delle proprie abilità. Anzi: se “The Neck Is A Bridge To The Body” rimette una chiesa al centro del villaggio, questa è proprio quella della musicalità, il dono di coniugare ricercatezza e potabilità. Il merito è esteso, naturalmente, anche ai collaboratori con i quali Kaki ha deciso, già da qualche anno, di condividere il percorso: in primis ETHEL, quartetto di archi qui deputato a cullare “Trying To Speak I” (tumultuoso spaccato virtuosistico in fingerpicking) e ad incalzare, con complesse armonie cinematiche, una “Trying To Speak II” severa nell’abito, silvana nell’animo. “Anthropomorph” – della quale è stato girato un bel video visual – si puntella su un ondulato 7/8, con la tromba del giovane Dan Brantigan a mo’ di contrafforte: un pezzo meraviglioso, il migliore del disco. Non tutto è però lineare come sembra, come farebbero intravedere episodi del calibro di “The Surface Changes” (alt rock acustico d’altri tempi d’indiscutibile fascino, ma dall’andatura preconfezionata): nella compattezza dell’insieme, Kaki King gioca con sé stessa e con il proprio passato. Le increspature ritmiche di “Thoughts Are Born”, con la cassa della chitarra ridotta a semplice percussione, sono un evidente rimando alle inquietudini di “Legs To Make Us Longer” (2004), mentre “Battle Is A Learning” deraglia nel noise novantiano occhieggiato da “Junior” (2010: esplicite le connessioni anche con l’ultimo periodo, decisamente heavy, di Shannon Wright) e le costruzioni minimali, ma scalari di “Oobleck” (scarnificate con ancora maggior efficacia in “In The Beginning”) cercano di riannodare la narrazione dell’interlocutorio “Dreaming Of Revenge” (2008).

Dolcissimo è l’epitaffio, con una rivelatrice “We Did Not Make The Instruments, The Instruments Made Us” tutta arpeggio e sentimento. Ci possano modellare, allora, questi strumenti: e renderci, magari, persone migliori.

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