Luigi Milanese
Equinox
Mai trovato a pieno agio con l'inglese, lingua fin troppo sovraesposta la bellezza dei cui meccanismi, alle mie orecchie, paga la saturazione e la banalizzazione di una diffusione forzatamente globale. V'è però un aggettivo che in inglese amo, slippery, non facile a tradursi in altre lingue. Slippery è ciò che è scivoloso, anzi, sdrucciolevole (giusto per abbinare onomatopea ad onomatopea), sul piano pratico e teorico: di conseguenza disagevole, furtivo, insidioso. Slippery è avventurarsi nel territorio dell'arpeggio acustico e della composizione via fingerpicking senza indossare un elmetto da guerra di quelli resistenti, senza un solido bagaglio personale, senza la coscienza o l'incoscienza? di capire che la propria è una passione in estinzione (e in perdita). Luigi Milanese, che alla classica impostazione da solista è arrivato solamente dopo un lungo percorso, con i più grandi del rock popolare e primo pesante a fare da stepping stones, avanza a grandi falcate su Corso Slippery con stivali rinforzati ai piedi e un manico in mano, sul quale lasciar scivolare dita a buona ragione fatate.
È un'immagine fin troppo ricorrente, quella dei chitarristi classici capaci di fare tutto e di più col loro strumento, (solo) in parte confermata dalla realtà. Se ciò che ne esce è un brano, proprio o altrui, (ri)costruito con l'unico intento di mettere in luce gli skills di chi lo sta rivisitando, l'utilità dell'ascolto si esaurisce nell'estetica del virtuosismo, bruciandosi in un nonnulla. Equinox, invece, è un bel disco perché, oltre il gesto, la cui prominenza si rivela comunque sempre presente, v'è il messaggio. Oltre i generi, la fantasia. Oltre il tocco, la concretezza. E pare quasi di vederlo all'opera, Luigi, alle prese con il groove addomesticato di Flower Of Lust, un blues ritmato con progressioni che sembrano irrigidite in un paradigma, assolutamente Zeppelin (rievocati anche in una bizzarra cover soft di Tangerine, con arrangiamento svolazzante dello Gnu Quartet), a tratti lasciato a marcire in un bagno di sospensioni modali. Dal richiamo al collegamento. La musica modale è un fantasma, un alone che sempre aleggia sulla fibra strumentale e che, di tanto in tanto, si esplica con più forza. Little Modal Dance è lo snodo, iniziale, dove riesce possibile sezionare gradatamente la scrittura di Milanese: il crescendo fiabesco che trasforma, via violoncello (bravissima Marila Zingarelli), oboe e sax, l'ombroso valzer d'apertura, si ferma sulla soglia di un contrappunto di slide. Africa, all'opposto, gioca la carta di una cinematicità da romance grandangolare, tanto gradevole quanto lontana dall'essere profonda.
Come accennato prima, non solo inediti ed il soggettivismo di chi scrive ora aggiunge purtroppo, dato che sempre si preferirebbe ascoltare qualcosa di più personale da chi ha in dote simili strumenti. La scelta delle cover, Led Zeppelin a parte, riesce comunque curiosa e stimolante ad un tempo. Riuscita Si Beag Si Mhor, originale dell'arpista settecentesco Turlough O'Carolan rivitalizzato in un fingerpicking rispettoso dello standard, e anche Sarabande di Bach il vero banco di prova per ogni chitarrista classico che si rispetti suona al meglio, in tutto il suo perfetto rigore formale. Dove l'esecuzione non riesce perfetta, tuttavia, come nel difficile Prelude N° 4 originariamente scritto da Heitor Villa-Lobos (è sufficiente sentirsi l'intricata sezione centrale per realizzare l'intensità performativa richiesta), l'ascolto si fa anche più gratificante, fino a spingersi sulle soglie di una Cosmic Revolution autografa che, nel suo selenico involarsi Six Organs Of Admittance, apre nuovi ed ancora maggiormente coraggiosi scenari per l'avvenire.
Buona la prima. Ora si fomentino le aspettative, ché c'è motivo di attendersi ancora molto, e molto di positivo.
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