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R Recensione

6/10

Sungha Jung

Irony

Benedizione e sciagura, per il sedicenne sudcoreano Sungha Jung, coincidono e si materializzano nelle sinuose forme della chitarra acustica con la quale, da qualche anno a questa parte, si è imposto a furor di popolo come giovane e strabiliante guitar hero della nuova generazione tecnologica, nata e cresciuta a pane e YouTube. Basterà scorrere velocemente i video del suo canale ufficiale per cogliere un colpo d’occhio complessivo – e veritiero – delle enormi potenzialità espresse dal ragazzo: sigle di cartoni animati, soundtrack più o meno celebri (la sua prova migliore rimane, a sindacabile giudizio del sottoscritto, questa), evergreen del pop/rock da classifica, tutto viene frullato e ingigantito dal completo gusto armonico di Sungha e dalla sua tendenza, tipicamente virtuosa, di mescolare linee base ad arrangiamenti nella loro interezza, creando un tappeto di suono a tratti persino sbalorditivo, se si pensa alla fisionomia del musicista e alle limitazioni consequenziali del suo strumento.

Sul versante positivo ci siamo per ora espressi. Il potenziale rovescio negativo sta nel tallone d’Achille che affligge, da sempre, tutti gli esecutori (molto) sopra la media: ridurre le fondamenta essenziali del discorso alla bravura tecnica, inciampando inesorabilmente in atroci banalità al momento di confrontarsi con i rudimenti di una propria composizione. “Irony” non è l’esordio discografico del campioncino, che aveva già saggiato il terreno “ufficiale” con l’album dell’anno scorso, “Perfect Blue”, interamente imperniato su un’eterogenea quanto superflua scelta di cover. Per saggiare i primi risultati autografi bisogna aspettare il secondo capitolo, grossomodo ancora condiviso a metà con ulteriori reinterpretazioni. Partiamo proprio da queste ultime, per capire il tenore delle altre. Artista prediletto da Sungha sembra essere Michael Jackson, un’ammirazione che si sente andare oltre il semplice tributo post mortem: impressionano i ghirigori di “They Don’t Care About Us”, in una fenomenale ricostruzione a riff ed arpeggi che sfora nella maniacalità, e anche le strutture di “Beat It”, seppure a tratti stucchevoli, sono passabili. “The Winner Takes It All” degli Abba, suonata in maniera eccezionalmente sobria, rende bene l’idea di come la commistione melodica dei quattro svedesi fosse d’alta caratura. Da segnare sul taccuino anche il profondo respiro internazionale nel rileggere “Been Already A Year (Beolsseo Ilnyeon)” di Beuraun Aijeu ed il taglio sbarazzino regalato agli intarsi a cascata di “Lonely”, recente hit di una band al femminile, le 2ne1, proveniente dalla stessa Sud Corea.

Ora, gli originali. Sungha evita di fratturare il disco con evidenti discontinuità stilistiche e procede, imperterrito, per piccole pennellate di suono elegantemente unite in un fluire ininterrotto. Abbastanza pronosticabile la constatazione di non essere riusciti a scovare importanti smagliature nel tessuto. La capacità di colore ed esecuzione a tratti non smette di strabiliare, come succede nell’ondeggiare malinconico della title-track, con blocco centrale svisato e martellato, nella solidità degli intrecci cinematici di “Fly Like The Wind” o nella vivacità blues della godibile “Farewell”. Il limite della proposta, se di limite davvero si può parlare, è la tendenza a rifugiarsi il più possibile in una complementarietà sonora tanto rassicurante quanto, a conti fatti, prevedibile. Dunque “For You”, già dal secondo ascolto, stupirà per la forma ma annoierà per la sostanziale banalità del contenuto, mentre la dolcezza insistita di “Songbird” scivolerà via, senza colpo ferire e senza provocare alcun tipo di scossone.

Insomma, caro Sungha, quella chitarra è destinata ad essere proprio una benedizione ed una sciagura. Che dici, è ora di lasciar perdere il romanticismo e di ingranare con la doppia freccia?

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Voto degli utenti: 2/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Alfredo Cota (ha votato 2 questo disco) alle 16:42 del 6 dicembre 2011 ha scritto:

uppercarità!