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R Recensione

7/10

Alaska Reid

Big Bunny

Alaska Reid ha ventiquattro anni e prima che ci si stupisca di questo numero - non è mai un male ricordare la precocità di un’artista - bisogna sapere che in realtà è una musicista sin da quando aveva solo quattordici anni. Ma non per formalità curricolare. A partire da quell’età e fino ai diciotto Alaska, che poco ha a che fare con i freddi ghiacci siberiani ma che è cresciuta nel Montana di Norman Maclean, ha vagato per Los Angeles, tenendo concerti e, al contempo, frequentando la scuola superiore. Nel 2012, tornata in Montana, si fa notare al Big Sky Songwriters Festival. Da lì la formazione della band Alyeska e l’EP Crush nel 2017, prodotto nientedimeno che da John Agnello (Kurt Vile, Dinosaur Jr, per dirne un paio), a cui si era rivolta semplicemente spedendo un messaggio su Facebook. In Big Bunny, nonostante questo sia un disco fatto anche di collaborazioni, il suo nome compare solitario.

Si tratta di un album autobiografico, definito dalla stessa Alaska come un “diario della mia vita”, di lei, “innamorata di un fantasma del passato”. Dal punto di vista sonoro è Alaska stessa a riconoscere due filiazioni, da una parte un folk americanissimo sul quale si forma nei primi anni e dall’altra l’influenza di una band per lei fondamentale, ovvero i Dinosaur Jr (“un po’ di Joni Mitchell che incontra i Dinosaur Jr”, dice scherzosamente in una intervista). Far leggere però l’album solo come un mèlange o un collage sonoro e collaborativo, per quanto questo ci incuriosisca, è un atto di modestia da parte di Alaska. Basta dare un ascolto alla prima traccia, nonche title track, per capire che c’è di piu. In primis l’influenza, certamente, di quello che è il suo attuale compagno e che è stato spesso un collaboratore di Alaska, ovvero A. G. Cook, in altri termini la presenza di elementi elettronici, non nudi ma spesso resi ruvidi dall’intervento di una chitarra che rimane sempre una chitarra rock (la coda di Big Bunny, appunto, ma cosi accade anche nella più particolare Quake). Il pianoforte che introduce Warm, canzone peraltro che risulta, come molte tracce del disco, perfettamente in linea con un pop oggi universale, racconta le giornate losangeline della giovanissima Alaska.

Ci interessano di più gli ultimi due brani, che rappresentano forse il vero gioiello dell’album, ovvero Pilot e Blood Ice, anticipati dalla solitaria City sadness. Qui Alaska si distacca da quelli che ci suonano in parte come “debiti sonori” nei confronti non solo del suo sound più classico ma anche del pubblico generico, meno abituato alla lirica pura, assumendo una voce intimistica e spontanea. Ci piace di più ascoltarla così, Alaska, con la sua voce svestita da filtri, effetti e artificiosità, in Pilot, una voce che certo rievoca i lunghi ascolti di Joni Mitchell ma che ci ricorda anche altre artiste (la Cat Power di Moon pix, perché no?), una voce che dà spazio a un liricismo prima rimasto in parte in sordina. Accompagnata da una morbida chitarra folk, anche in Blood Ice la naturalezza è quella di un fiato che lascia nuvole di fumo nel tardo pomeriggio di una giornata invernale. Peccato che si sia raccontata in questo modo solo nei due brani conclusivi.

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