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R Recensione

8/10

Alela Diane

The Pirate's Gospel

“Le canzoni folk sono colme di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale…C'è più vita reale in una sola frase di queste canzoni di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock'n'roll…”: lo diceva un certo Dylan, e il vecchio Bob non sbaglia (quasi) mai. Con il folk non si scherza, è la carta d’identità di una nazione, la vera “popular music” che secoli fa autori sconosciuti trasmettevano oralmente alle classi più povere. Nella bulimia digitale degli Anni Zero quattro spartani arpeggi possono ancora parlarci di tradizione, sentimenti e del volto antico di una ragazza.

Nevada City sorge al confine tra Reno e Sacramento, ed è un piccolo centro di tremila anime dove tutto evoca l’antica comunità mineraria, la corsa all’oro, l’arcaica vita delle famiglie nelle foreste. Alela Diane Mentig è nata e cresciuta in questi luoghi della California settentrionale radicati nel mito della Frontiera, di carovane e pionieri verso l’Eldorado della Terra Promessa. Quando la natura era taciturna spettatrice, una compagna leale e a volte ostile, che può far male. Nel canto della storyteller americana rivive il soffio del vento tra gli arbusti secolari e l’orgoglio invalicabile di una tribù Modoc, il doloroso cammino di espiazione e rimpianto che porta a navigare familiari “foreign waters” (“My Tired Feet”) e la volontà di sopravvivenza nonostante “…i'm moving back to face the lack of home…” (“The Rifle”, “Heavy Walls”). Foto ingiallite e sepolte nei cassetti della Storia, che si animano improvvise di facce lontane e gesti dimenticati attraverso scarni accordi acustici. Perché puoi anche incolpare il cielo dei tuoi errori, ma il loro riflesso scorrerà sempre limpido nell’acqua (“Can you blame the sky, when a mama leaves her babies behind…Can you blame the sea, ‘cause she’s a flowing in that water deep…”).

I brani riflessivi e spogli di “The Pirate’s Gospel” sono piccole storie di una giovane donna sospesa nel tempo, che da bambina ascoltava silenziosa a casa country e traditional bluegrass con gli occhi attenti e curiosi dei cuccioli affamati di mondo. In principio erano una raccolta di demos che già rivelavano la notevole sensibilità artistica di questa moderna e quieta Karen Dalton, luminosi fotogrammi in bianco e nero nati durante un viaggio europeo e registrati nello studio casalingo del papà musicista. Nel 2006 la Diane pubblica finalmente in via ufficiale il suo “Vangelo Del Pirata” per l’indipendente Holocene Music (in Europa sarà rieditato nel ’07 dalla francese Fargo), aggiungendo discrete note di piano e slide-guitar sullo sfondo di una produzione artigianale, e supportata dalla scena neo-folk statunitense inizia a girovagare in tour insieme alla concittadina Joanna Newsom, a Vashti Bunyan e gli Akron\Family.

“I've been knocking on that door in my sleep…Fight my fireplace glow to keep me away, to keep me away from home…”

“The Pirate’s Gospel” è un intimo viaggio altrove, cullati dalla nudità espressiva di una sei corde acustica e l’ipnotico struggimento della calda voce di Alela. Mezz’ora di sabbiosi intarsi psych-folk destinati alla classicità, che rapiscono il cuore per l’intreccio delle voci infantili con una mesmerica malinconia (“Pieces Of String”), scolpiti tra l’hand-clapping nei campi di cotone del lontano lamento blues “The Pirate’s Gospel” e l’assoluta suggestione onirica di “Clickity Clack”. Poi nella dedica finale di “Oh! My Mama” la cantautrice californiana si fa portavoce di teneri auspici materni, e il suo vibrato commuove, sfiora un ricordo abbandonato, solitario, perduto in una lirica e toccante intimità. Alela Diane ci osserva austera da una cover seppiata, un’immagine polverosa e atemporale che mostra la folk-singer con gli abiti e i lunghi capelli neri di una nativa indiana. Ha lo sguardo fiero e saggio della gente che popola i suoi racconti rurali e nobili. Un poetico fantasma di un’altra epoca, un flashback da quel passato remoto che è il fiume sacro della memoria. “...I’ll never tip-toe across my home ever again…Ever again, ever again…And foreign tongue ties me here. Foreign tongue ties me here…”

 

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 4 voti.
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Teo 8/10
Cas 8/10

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farmerjohn (ha votato 7 questo disco) alle 10:03 del 25 marzo 2011 ha scritto:

vista dal vivo qualche anno fa, brava ma un pò piatta, anche il secondo album non è male

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 13:56 del 3 agosto 2011 ha scritto:

bravissima alela diane! apprezzo molto il suo stile leggero ma elegante, il suo tocco alla chitarra delicato ma netto, preciso, quel mood malinconico sommesso... come apprezzo molto anche il suo relativo intimismo, il suo essere poco incline a derive hype (facile per un'artista folk ai tempi di pitchfork) conservando un radicamento ad una tradizione nobile. un'artista di tutto rispetto insomma, tra le mie preferite nel contemporary folk dei 2000.