Balmorhea
All Is Wild, All Is Silent
Chi ha detto che in Texas crescono solo cactus e cowboy? Eppure i Balmorhea – l'accento rigorosamente sulla prima "a" -, non indossano stivali con speroni, nè tantomeno sono verdi o spinosi; incarnano uno spirito completamente diverso, affinato a un gusto romanticissimo di fare musica; ai concerti si vestono in maniera semplice, bandiscono ogni apparenza e qualsivoglia snobismo modaiolo, fanno poche pause, pochissimo cabaret, sono affiatati e gentili. E suonano da dio, anzi meglio.
Già padroni assoluti con "Rivers Arms" della recente scena chamber-folk , il duo di Austin decide di mettere in atto due piccole rivoluzioni: in primis allargando il numero dei membri da due a sei, ispessendo così il tessuto strumentale e variando di molto il tema melodico, ora decisamente più ritmato e aggrovigliato. E poi la storia dietro le note, l'idillio narrativo che richiama alla rivoluzione texana degli immigrati americani contro i padroni messicani e che accompagna per intero "All is Wild, All is Silent", terzo loro album.
Un'opera emozionante, che pizzica fin da subito, e con grande maestria, le corde della nostra sensibilità, che non cerca mai soluzioni imprevedibili o particolarmente originali, ma che si rifugia in un minuziosissimo gioco barocco fatto di lievi sfumature, controtempi paralleli tra chitarra acustica e richiami pianistici, frenate e ripartite improvvise delle percussioni, e pregevoli usi di handclapping, soprattutto nelle festose risalite tonali, accompagnati spesso da vocalizzi ululanti ("Settler"). Ma in realtà sarebbe sbagliato, oltre che riduttivo, presentare i brani a sè, scomponendoli di fatto tra loro e separandoli dall'insieme... tuttavia delle linee-guida vanno pur tracciate; tenete bene a mente però, che la forza di "All is Wild, All is Silent" sta proprio nell'unire le singole melodie in un risultato d'amalgama perfetta, per il quale si possono creare vibranti dialoghi di chitarra acustica e banjo, sostenuti da un fitto muro cespuglioso di viola e violino, e da un finale di pianola a bocca che disegna piccoli volteggi di vento ("Remembrance"), così come delicati girotondi a specchio delle due chitarre acustiche ("Elegy"). I rimandi lontani sono ai Rachel's e ai Dirty Three, per l'incredibile descrittivismo romantico, in grado di evocare luoghi in maniera quasi onomatopeica, e quelli più recenti ai Noah And The Whale, con i quali sono veramente in simbiosi (tanto che se vi piace uno dei due gruppi, adorerete sicuramente l'altro e viceversa).
Difficile assegnare una palma d'oro in un disco come questo, meriterebbe il crescendo di piano e violino ("Truth"), o il lento solo di piano affiancanto dall'ugola dolce di Jesy Fortino (Tiny Vipers in "November 1, 1832"), ma anche il trasporto viscerale delle percussioni sulla malinconia del violino e del banjo ("Night In The Draw"). Meriterebbero queste, quelle di prima e quella che verrà: intro di calma piatta s'un pianoforte in sospensione, elegantissimi incastri in controtempo per chitarra, violino e violoncello, accelerate infuocate del trio d'archi al completo, piccole esplosioni nel ritornello di chitarra acustica, lievi pizzicate a mo' d'arpa sulle corde del violino, e ancora calma rarefatta sul finire, gli accordi al riverbero di chitarra che riaccende per poco il muro melodico, fino alle ultime punture arpeggiate del violino che chiude quasi di botto la magia ("Harm And Boon").
Una palma non basta, serve anche una corona di stelle.
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