Beirut
March Of The Zapotec-Holland
A ventitrè anni può già permettersi di fare quello che vuole. Beato lui.
Dopo aver incantato gli animi “indie” con “Gulag Orkestar” nel 2006 (che bello potersi agitare su quelle fanfare balcaniche salvaguardando la compostezza snob dell’intenditore di musica) ed aver messo d’accordo tutti (o quasi) smussando le sonorità con il successivo “The Flying Club Cup“, Zach Condon (meglio noto come Beirut) ha fatto la valigia e si è concesso una gita a Oaxaca, Messico.
Il resoconto di questo viaggio è “March of the Zapotec”, ep di sei pezzi eseguito con l’aiuto della Jimenez Band, un’orchestra funebre messicana (o meglio, Zapoteca) di 19 elementi. L’esito è una divertente digressione sui temi etno-folk che hanno reso celebre Condon, appena velati dalla ovvia componente “latina”. In realtà la distanza con le precedenti produzioni a nome Beirut è appena percettibile, anche perché i brani migliori sono quelli nei quali spicca la consueta (ed eccellente) vena melodica dell’autore, abilissimo nel tracciare armonie di ampio respiro (“The Akara” sembra Yann Tiersen trapiantato in Messico ad arrangiare per orchestra i migliori Calexico), tenendo sempre i piedi ben saldi nell’amata tradizione europea (“The Shrew”, il cui finale ricorda “Gulag Orkestar”) ma concedendo spazio agli elementi nuovi (“La Llorona”). Il primo ep è tutto qui. Un quarto d’ora completato da brevi intermezzi (“El Zocalo”) e accenni strumentali (“On a Bayonet”, con Chris Taylor dei Grizzly Bear al sax).
A completare quello che (di fatto) è il terzo album dei Beirut, un secondo ep (“Holland”) nel quale Condon rispolvera il vecchio pseudonimo (Realpeople) e le relative sonorità già sentite nella raccolta “The Joys of Losing Weight” (sempre a nome Realpeople). Vale a dire, giochini synth-pop (“My Wife, Lost in the Wild”), liquidi momenti elettronici (“Venice”) e trascurabili riempitivi danzerecci (“No Dice”). Al solito, salvano tutto le melodie vocali, qui interpretate con un timbro densamente zuccheroso alla Jens Lekman (“The Concubine”) ma talmente espressivo da ricordare David Byrne (“My Night with the Prostitute From Marseille”, un piccolo gioiello).
I fan del genietto di Santa Fe troveranno due motivi di soddisfazione: l’evoluzione del filone “etnico” inaugurato con “Gulag Orkestar” e il recupero dell’elettronica come sfondo per le armoniose linee vocali di Zach. Per tutti gli altri la sensazione sarà quella di aver visto il progetto Beirut riacquistare le due caratteristiche senza proporne altrettante nuove.
Un passo in avanti e due indietro. Non molto incoraggiante, a ventitrè anni.
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