V Video

R Recensione

7/10

Birdengine

The Crooked Mile

Tra fine novembre e dicembre le novità discografiche sono pochissime. Escono per lo più greatest hits confezionati per lo shopping natalizio e dischi oscuri. Molto meglio concentrarsi, certamente, sui secondi: alle luminarie sbrilluccicose, preferire gli angoli bui. Birdengine, alias Lawry Joseph Tilbury, desolato e spettrale lo è al massimo grado e in modo del tutto personale.

Prima di stanza a Brighton, dove ha bazzicato il giro della Woodland Recordings e pubblicato un mini-album e qualche sparso CD-R (“The Black Dictaphone”, tra tutti), ora il ragazzo vive a Tolosa, a ben altre latitudini. Eppure la sua tenebrosità e il suo ghigno dark sono rimasti intatti, e i suoi pezzi hanno mantenuto quel sapore di folk olde england, brughiere fuori dal tempo, inquietudini rusticane e misteri da villaggio contadino che dal 2005 è la cifra di Birdengine. Difficile fare paragoni, perché Tilbury, se non è un naif, è certamente un outsider, nel senso che preferisce ritirarsi nei boschi e non uscirne. Come se nel capanno di Bon Iver ci fosse andato Boduf Songs. E questo suo primo album, per ora solo in formato digitale ma nel 2011 anche su disco, fotografa un artista ormai all’altezza dei migliori cantautori del genere (haunting folk?).

Sono proprio i suoi vocalizzi da lupo solitario a macchiare di una lamentosità penetrante e intensissima tutto il disco, su basi sempre molto scarne, da chitarre di un nylon vecchio muffoso. È qui che Birdengine trova i suoi spazi migliori, lontano dalle convenzioni: i pezzi con la batteria, allora, tranne la tarantolata “Phantom Limb”, sono i meno convincenti. Meglio le divagazioni ubriache, senza traccia di struttura canonica, di “I, Dancing Bear” o “And Accidents Fell From The Sky”, o la musica per antiche corti medievali abitate da fantasmi di “Ghost Club” e “Music At Court”, lied folkloristici con fisarmonica che solo un Matt Elliott in versione bardo gaelico avrebbe potuto concepire. Difficile trovare musica con una capacità evocativa così alta e così precisamente connotata (regni remoti, leggende nere, diavoletti pagani, campagne magiche, simbolismi tetri).

Da cantare c’è un continuo turbamento abitato da animali fantastici e presenze inquietanti, una lunga galleria di scene slegate e pazzie surreali (“Scarecrow and the Londpig”, con un finale elegiaco). Finché cade il brivido abissale (“Hoof”), che più si ascolta più si diventa d’autunno, e poi il requiem kusturicano (“Make Happy”), un po’ gioco un po’ morte.

Dio salvi i dischi oscuri. E i dischi oscuri restino dannati.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.