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R Recensione

8/10

Case Studies

The World Is Just a Shape to Fill the Night

La magia del folk è che, nonostante torni uguale a se stesso da decenni, come i demoni e le ossessioni, può comunque, fortuitamente, nell’album che non ti aspetti, suonarti addosso come una sorpresa illuminante, e cambiarti le giornate, entrarti sottopelle. Case Studies è Jesse Lortz, ex metà dei The Dutchess and the Duke, autori negli scorsi anni di due dischi folk rock di buon livello (“She’s the Dutchess, He’s the Duke”, 2008; “Sunrise/Sunset”, 2009). Terminata l’avventura con Kimberly Morrison, Lortz ha deciso di mettersi in proprio, eliminando il fattore rock: rimane l’osso, e rimangono i demoni privati da esorcizzare.

The World is Just a Shape to Fill the Night”, che esce, per stessa ammissione della Sacred Bones, come un corpo estraneo all’interno del catalogo dell’etichetta di Brooklyn, è un disco di folk tradizionale macchiato di nero, evidente patrono Leonard Cohen: chitarre nude, drumming fatto solo di tamburello e grancassa, cori femminili a dialogare col tono basso di Lortz, testi di dolore e America profonda. E una scrittura da classico.

Al fingerpicking, raro (“Texas Ghost Story”), Lortz preferisce il turbinio di pennate piene, anche corpose e avvolte di fumo (“Secrets”), mentre i cori riempiono di vie di fuga ubriacanti i pochi vuoti sonori: spettacolare, ad esempio, il crescendo di “The Eagle, or the Serpent”, con sovrapposizioni vocali che stordiscono nella coda lanciata dal legno sodo della cassa e dal violoncello.

Il disco è stato per lo più registrato in un capanno isolato in quel di Sequim, WA: la faccenda della baracca trasformata in eremo folk è ormai trita, ma Lortz non ne fa materia di leggenda. Nei testi, anzi, emerge, accanto all’America arcaica e perduta, mitologia di ogni folker, anche una contemporaneità di stupidi feticci e realtà urbane. “My Silver Hand”, raccontando la restituzione da parte di una ex della mano d’argento che Lortz le aveva regalato per farle sentire la sua vicinanza durante i periodi di allontanamento, diventa una riflessione sui residui delle storie d’amore («If I took back my silver hand, could we go back and start again?»), tra violino ed elegiaci lalalalalalala. Pezzo stupendo, vecchio e assieme nuovissimo. E ancora: “You Folded up my Blanket Like We Were Already Lovers” è un classico trionfo dell’amore ‘far from home’ con tamburello, contrabbasso e chitarra country, ma prende lo spunto da un incipit decisamente poco 'traditional' («You lifted up your skirt and took a piss right in the street / You shook it off your thigh and your eyes said 'I know you're watching'»).

Siamo sempre gli stessi, insomma, anche nel 2011: pure sui dolori strascicati dal piano à la Nick Cave (anni ‘90) in “California Ghost Story”, nel fischio finale di “The Day We Met”, nel folk noir di “Dagger”, nella solitudine maledetta di “Texas Ghost Story” («last night I tried to find my demon, he was gone [...] never in my live have I felt so alone»), nelle linee elettriche di “Lies”, nella melodie stonesiane di “Animals” (ci si sente “Paint it Black”).

Sempre materia per case studies. Che torna uguale da decenni, ma ogni tanto illumina. Come qua.

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Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 13:21 del 10 ottobre 2011 ha scritto:

Disco notevole (così come la puntualissima recensione).

E' pane per i denti di tutti i malati di canzone d'autore, e chissenefrega se suona vecchio o no.

Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 15:45 del 13 novembre 2011 ha scritto:

davvero uno squisito dischetto folk. Bravo Target!