Chelsea Wolfe
Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs
La copertina di un disco, talvolta, può dire tanto, o tutto. È il caso del nuovo album di Chelsea Wolfe, che coricata su un letto, vestita del nero a lei così familiare, porta una mano sul volto, a celarlo. È come se invitasse l’ascoltatore a fare lo stesso: chiudere gli occhi, smarrirsi esclusivamente nella musica, nelle parole, nelle emozioni. Nei sogni. Perché è questo ciò che vuole Unknown Rooms, vuole che la mente si abbandoni nelle sue “sconosciute stanze”; le stanze dei sogni, appunto, dove tutto è indefinito, vago, incerto; stanze imprecisate che – dice Chelsea – accennino all’aldilà, a spazi ignoti, a camere dimenticate dell’anima.
“Sono voluta tornare alle mie radici: volevo fare qualcosa di intimo, di riservato”. E le radici della Wolfe attecchiscono nei boschi della North Carolina, in una casa incastonata nella bellezza della natura selvaggia, dove Chelsea maneggiava la chitarra del padre e scriveva canzoni fin dall’età di nove anni, respirando musica: è in questo habitat che nasce e si evolve la sua arte, è in questa atmosfera pura, pressoché incontaminata, che la Wolfe invece si contamina delle più disparate influenze, assorbe ogni eco.
Nella tendenza a raffrontare Chelsea Wolfe con qualcuno che musicalmente le somigli, ci si perde in un gioco futile e stucchevole: in questo immenso mare galleggiano più di altri Nick Cave, PJ Harvey, Lisa Germano. La Wolfe, tuttavia, è semplicemente se stessa: un’artista raffinata, ispirata, profonda. Stavolta Chelsea tralascia la sperimentazione, il gothic rock. Smette, a tratti, anche la veste tenebrosa da doom lady. E un po’ si ravviva, imbracciando la chitarra acustica, curando sonorità minimali, arpeggi essenziali, esibendo la versatilità di una voce toccante, accompagnata dagli archi affilati dei violini che scavano la psiche: “volevo esplorare nuovi suoni, nuovi modi di utilizzare la mia voce”. Temi elementari nelle liriche, lei afferma, “a riconciliare la natura e l’amore, l’antico e il moderno; a rivelare la bellezza nell’oscurità delle cose”.
Questa raccolta di brani acustici – come è indicato anche nella copertina – racimola appena nove pezzi, per un totale di soli 25 minuti: neanche Nick Drake, nel brevissimo Pink Moon, era stato più rapido. Ma in questa limitatezza è condensata una quantità inestimabile di pathos: è una concentrazione di suggestioni che disorienta, che turba, che vibra. È un sonno corto – come vorrebbe Chelsea – nelle nostre sconosciute stanze, distesi sul letto con la mano sugli occhi, ad assaporare la poesia che sgorga dagli strumenti e dalle parole: in queste camere, all’apparenza anguste e disadorne, si apre inaspettatamente un orizzonte sbalorditivo, smagliante, inevitabilmente onirico. È un palpito di mezz’ora, poco meno. Però un palpito continuo, ininterrotto, senza cali o riduzioni: un deliquio.
Unknown Rooms edordisce con "Flatlands", e cioè le terre estese e desolate che la Wolfe desidera, tra mari, alberi e abbracci, anelando all’essenziale. Delizioso è l’arpeggio di chitarra, con piccolo bending, stretto a metà del brano dalle carezze del violino. Gemiti scanditi aprono "The Way We Used To", che narra di un amore confuso: è paradossalmente nell’assenza dell’altro che questo sentimento si compie, mentre Chelsea, tra il tamburo ritmato, è straordinaria padrona dei suoi vocalismi e palesa tutto il suo eclettismo. In "Spinning centers" la Wolfe dà ancora saggio della sua mirabile voce, liberandosi in scale ondulate, in un clima sottile, cristallino. "Appalachia" riporta alla mente le montagne in cui è nata e cresciuta Chelsea stessa, tra i boschi della North Carolina, nell’affascinante natura ora rievocata: pare di vederli, a volo di uccello, questi pini, questi abeti, questi laghi, mentre la chitarra grezza e le percussioni cadenzate graffiano l’aria, assieme ad un violino ed una viola penetranti.
I trenta secondi di "I Died With You", composti semplicemente da due voci eteree e fanciullesche che si sovrappongono, parlano di una dolorosa dipartita: è un breve brivido celestiale. "Boyfriend" si apre con un arpeggio buio e minimale, tra i sospiri della Wolfe, in un’atmosfera cupa, lugubre e rarefatta che rammenta i suoi precedenti lavori. "Our work was good" è un’incantevole cavalcata di chitarra, tutta in minore, tra falsetti ripetuti e malinconici, mentre il piano lentamente decora la voce, in un crescendo ammaliante che sa di strade lontane, di brezza, di ovest. In "Hyper Oz" la ruvidità dei suoni si mescola alla delicatezza delle liriche e degli acuti, per finire in un accordo maggiore che sembra scaturire da un carillon stonato. Il disco si chiude col pianoforte incalzante di "Sunstorm", che replica due accordi nel botta e risposta di Chelsea, persa tra ricordi laceranti, tra parole e sensazioni, in questa giornata di pioggia e di sole, in questo sgargiante crepuscolo di un album che lascia necessariamente stregati.
Al risveglio dal sonno veloce, eppure intenso, le mani possono infine scostarsi dal volto, schiudendo le palpebre. Si può tornare alla realtà, dopo il breve viaggio trasognato. Ma la visita nelle sconosciute stanze renderà di certo più sereni, più puri, più appagati, perché arricchiti dalla poesia, dalla musica, dalla voce magnifica di un autentico talento che ha nome Chelsea Wolfe.
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