Isobel Campbell & Mark Lanegan
Sunday At Devil Dirt
Fateci caso: se vuoi far sbavare la critica, oggigiorno, te la devi tirare di brutto. Incidere pochi album ma concedere molte interviste, lasciare che gli epigrammi precipitino come olio bollente dai merli della tua torre d’avorio. O, in alternativa, licenziare un bel disco di cover, così per un po’ nessuno s’accorge che non hai più niente da dire. L’esatto contrario di Mark Lanegan che, a cagione di ciò, in questi tempi agri e scettici, rischia ogni volta di vedere la sua copiosa generosità scambiata per tremenda approssimazione: tempo fa, ad esempio, un tizio che scrive su un mensile molto noto nel nostro settore lo sfotteva affermando che (cito a casaccio, naturalmente, ma il senso è quello) prenotando a tempo debito lo si poteva persino ingaggiare per un matrimonio o un addio al nubilato.
E si che, già di suo, lui è uno che non si risparmia: solo negli ultimi due anni è passato dal rock dei QOTSA e dei Twilight Singer, all’elettronica dei Soulsavers e dei Baldwin Brothers; ha formato un duo con Greg Dulli, di cui ci siamo occupati qualche settimana fa, e uno con Isobel Campbell, di cui ci occuperemo fra qualche riga. Il suo timbro inconfondibile si leva ormai un po’ ovunque, tranne che nel nuovo album di Mark Lanegan che attendiamo ormai dal 2004.
Nel frattempo, però, abbiamo di che consolarci: dopo l’acerbo ma già promettente Ballad of the Broken Seas, la “strana coppia” (fa sempre un certo effetto vedere un randagio bardato di nero accompagnato ad un biondina efebica il cui primo disco solista s’intitolava “Amorino” ?!) aggiusta diabolicamente il tiro sfornando un atto unico nel quale le loro voci dialogano superbe, una piéce, quasi cecoviana, in quel teatro senza tempo che è la popular music. Questo Sunday At Devil Dirt, bisogna ammetterlo, nel suo genere sfiora la perfezione: i duetti un po’ squilibrati (per la difficoltà di amalgamare due intonazioni così divaricanti) del primo episodio cedono il passo a call and response in cui al prevalente baritono maschile fa da contraltare l’angelico/demoniaco sottovoce femminile, carezzevole come chiome sparse sul cuscino di un’ alcova.
La scrittura dei brani si amplia fino a concepire soluzioni distanti fra loro, come la chanson orchestrale, il country, il Delta blues, il voodoo, il jazz down tempo, addirittura. Un camouflage così curato ed insieme così naif, da lasciare estasiato anche chi non ne può più di vedere il nome di Lanegan trapunto su un disco di prossima uscita. Se può darvi l’idea: come in un film di Charlot, la bella e il suo Sebastian bighellonano mano nella mano lungo un tramonto che declina sull’erta del sentiero. L'amabile lestofante e la sua compagna/bambina immortalati in “Paper Moon” da Peter Bogdanovic.
I subdoli braccianti/amanti de “I Giorni del Cielo” di Terrence Malick. Due Bonnie & Clyde convertiti dagli Amish di “Witness”. O una coppia epifanizzata nelle Songs di Leonard Cohen.
Seafaring Song, picking pastorale con strumentazione d’archi e d’organetto, sembra una pagina sottratta al diario di bordo di un lupo di mare stile Jack London, impaniato nella malia delle sirene di Ulisse. In Raven, danse macabre degna della colonna sonora d’un polar, Edgar Allan Poe viene resuscitato con la lirica essenzialità d’un Joseph O’Connor e un arrangiamento alla Serge Gainsbourg. Salvation è un salmo country alla Leonard Cohen con cori gospel bisbigliati in sottofondo; Who Built The Road, soffice e morbosa, è l’idillio di due vagabondi quasi “chapliniani”, anche se stavolta, ad attenderli in fondo al Sunset Boulevard, non c’è l’omino col bastone ma la ghigliottina di “Monsieur Verdoux”.
Come on over (turn me on), down tempo noir e jazzato con quel tema d’archi che è quasi una citazione dei primi Portishead; Back Burner, uno spiritual lascivo (a ritmo di tamburi, marimbas e basso anfrattuoso) come il gemito d’un forestiero che s’incunea fra le imposte d’un bordello di Bourbon Street. The Flame That Burns è un Hazlewood/Sinatra a tempo di rag; Shot Gun Blues, uno stomp da palude cajun che suona alla maniera di un 78 giri rubato alla collezione di Alan Lomax, con tanto di finti fruscii del vinile. Keep Me In Mind Sweetheart, un waltzing segaligno corredato da un duetto alla “June & Johnny”; Something to Believe, una deliziosa filastrocca, un “coheniano” cantico delle creature, mentre in Trouble e Sally Don’t You Cry, un hammond quasi monastico contrappunta delicatissimi inni a due voci.
Il secondogenito della coppia, ascolto dopo ascolto, cresce sano, libero e forte lungo i romiti sentieri di una musica racchiusa fra le due sponde anglofone dell’Atlantico. Personalmente, non vedo l’ora di ammirarli dal vivo, il 31 corrente mese, all’Estragon di Bologna.
Il biglietto è pronto. Vi saprò dire.
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