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R Recensione

6,5/10

Jessica Pratt

Jessica Pratt

Perchè ho ascoltato Jessica Pratt? Perchè il suo mentore Tim Presley (co-fondatore del combo hardcore-punk Darker My Love, di recente attivo come solista col moniker White Fence) l'ha definita Stevie Nicks che canta sui demo di David Crosby. Nomi che solo a leggerli mi provocano eccitazione fisica (quello di Crosby un po' meno) e mentale. Nomi che non si possono fare impunemente, pena l'espulsione dal campo di gioco per condotta antisportiva. Nel mio mondo ideale, citarli a sproposito equivarrebbe a macchiarsi del reato di vilipendio alle alte cariche dello Stato. Zero attenuanti, e di indulto neanche a parlarne. Presley, per sua fortuna, ha giocato pulito. Il paragone è anzi calzante: da un lato abbiamo una voce che “veste” di inflessioni ancestrali il timbro della Nicks, senza peraltro mai risultare sgradevole o “gallinacea” (scusa, Joanna, sai che ti voglio bene); dall'altro composizioni per sola chitarra acustica (ma un arrangiamento no?), registrate in presa diretta, che per costruzione/pathos lambiscono a più riprese lo stile “liquido” e sognante del “Re Baffuto” della Bay Area (anche se, diciamocelo, il parallelo più immediato resta la Linda Perhacs di Parallelograms).

A scanso di equivoci, quello della Pratt è cantautorato vagamente psych o “espanso”, stile del quale si è abusato spropositatamente nell'ultimo decennio. A differenziare la ragazza dalla mandria di parrucconi “freak-folksters” sono, però, quei piccoli/grandi particolari determinanti: songwriting peculiare, si diceva, ma non caricaturale né circense (freak, appunto) né sgraziato né “dronistico” nè free né pedante né simil-cowboy (nel sangue della ragazza si registrano valori stranamente bassi di americana); stilema folk, ok, ma inteso come diretta emanazione di quello dei primi '70s e non, invece, la brodaglia “lisergica” che ha inficiato sia i '90s (tutte le varie Lida Husik, Azalia Snail, etc.) che i '00s (ce ne sarebbero da riempire due elenchi telefonici).

Il disco qui presente è composto da canzoni non eccelse ma vere, esistenti in quanto “portatrici di senso” e non come pura appendice/prolungamento delle barbe di qualche hipster o, per la par condicio, delle vesti floreali di una hippy ecologista di Frisco. Guarda caso, Jessica Pratt è di Frisco. Ha pure un viso dolce, veste eccentricamente unisex (grazie al cielo non tardo-hippy, almeno così pare dalle foto che circolano), e soprattutto comprende la meccanica interna, le dinamiche, i requisiti formali che deve possedere una canzone folk. Eccola concentrarsi sulla densità armonica, traendo il massimo da un fingerpicking semplice e funzionale (l'alternarsi di Re7 e Sol che apre Midnight Wheels sembra preso paro paro dalla quasi omonima Wheels di Mark Lanegan), assecondando l'intrusione di pattern anomali che creano una sospensione nella cadenza principale (vedi il ritornello di Night Faces), progressioni che confondono le acque senza però far perdere il filo del discorso melodico (Titles Under Pressure). La voce solfeggia alta, delicata, rapita, ma lucida nel fraseggio (accenni alla Newsom nella bella Bushel Hyde, alla Mitchell nell'incantesimo sopraffino di Half Twain The Jesse). Dreams, con voce maschile ad armonizzare, è la Gunnievere della giovane cantautrice: si dipana, rilassata e circolare, secondo le movenze del sogno e del ricordo, crogiolandosi nel torpore celeste che poteva appartenere soltanto a Crosby o al semi-dimenticato Gary Higgins. Di una bellezza dolorosa, tanto che si rimpiange la qualità sonora imbarazzante (in questo caso la registrazione è live) e la mancanza di un “paesaggio”, di uno scenario musicale che “liberi” il potenziale dell'opera.

Il limite più evidente dell'album è proprio l'assenza di arrangiamenti, di quelle sfumature che soltanto una produzione accorta è in grado di garantire. D'altronde, in campo folk oggigiorno la strada da battere è quella del rinnovamento in “alta fedeltà” (evitando di restare ingabbiati in taluni cliché folktronica), dell'esplorazione “lucida”, affinchè il genere possa riscoprirsi centrale nel dibattito musicale e uscire, volesse il cielo, dal pantano delle autoproduzioni a raffica. Si spera che Jessica Pratt faccia proprie queste direttive, perché il potenziale qui mostrato è di gran lunga superiore alla media. E poi, ricordiamolo, pure Laura Marling c'ha impiegato tre dischi per arrivare alle vette di A Creature I Don't Know. Fossi nei panni della Pratt, ci metterei la firma.

V Voti

Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 2 voti.
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ayam 8/10
Cas 7,5/10

C Commenti

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ayam (ha votato 8 questo disco) alle 11:53 del 31 dicembre 2012 ha scritto:

Ho ascoltato questo disco incuriosito dalla foto di copertina mentre spulciavo tra i nuovi arrivi di un negozio. Ne sono rimasto molto impressionato e l'ho comprato al volo. L'assenza di arrangiamenti per me è un valore aggiunto, e non scommetto sul fatto che una maggior cura nella produzione possa condurre in futuro ad opere migliori (ma ovviamente lo spero). Dai solchi trasuda un'atmosfera molto intima e raccolta, una volta tanto siamo distanti anni luce da qualsiasi odore di operazione commerciale (almeno nelle intenzioni) perchè il disco suona davvero molto autentico e sincero come peraltro osservato nella scheda. In ciò risiede la sua freschezza e la sua stessa originalità, nonostante il linguaggio sia il più tradizionale possibile. Di riferimenti ce ne sono moltissimi ma i nomi che mi vengono in mente sono quelli di Joni Mitchell e soprattutto Karen Dalton, che per quanto diversissima ritrovo molto in quest'esordio. Insomma, a me questo disco piace esattamente così com'è e non fatico a dargli un 8 pieno. Brava Jessica!

Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 20:51 del 5 marzo 2015 ha scritto:

Incantevole!