Joe Volk
Happenings and Killings
Che direste di un disco folk che esce sotto due egide, Crippled Black Phoenix e Portishead? Mica male. Joe Volk era la voce malinconica del supergruppo capitanato da Justin Greaves allorché suonava le endtime ballads che hanno costituito la parte migliore della sua discografia, al tempo pubblicata dalla Invada Records di Geoff Barrow. E così questo secondo disco solista di Volk (il primo, Derwent Waters Saint, risale a 10 anni fa) è in parte prodotto da Barrow, con qualche intervento alla chitarra di Adrian Utley. Ovviamente è un gran bel disco.
Come si può immaginare, non è un disco folk ortodosso: lelettronica entra spesso in modo piuttosto invasivo a decorare le ballate crepuscolari di Volk, espandendone il suono e sformandone la costruzione solitamente iterativa in sfilacciamenti quanto mai autunnali, tendenti a un languore violaceo (The Walker). Qualche ballata da fine dei tempi la si trova anche qua, con un surplus di incupimento dato dai beat che Barrow preleva dal terzo tempo portishediano per innestarli qui quasi a rifare The Rip (e The Curve non ci va tanto distante).
Il che non significa che manchino episodi melodici degni di nota, anzi: dal singolo Soliloquy allepica ipnotica con harmonium di Bampfylde Moore Carew (bel titolo: è il nome di un vagabondo settecentesco che sosteneva di essere il re dei mendicanti: è un disco per underdogs, chiaramente), Happenings and Killings offre continui appigli di cantabilità, alternandoli con sapienza a momenti più screziati e concentrati sul suono: vd. il godimento puntinato cui Barrow riduce una chitarra elettrica in These Feathers Count o il maledettismo distorto in cui è abbrutita larmonica in Sirens (passaggio splendido), il passo scandito con pesantezza dal basso di The Thief of Ideals, tra Krog e Mellotron che ricamano una trina di malinconie, o la resa quasi da dancefloor di Is Pyramid.
Volk canta testi lessicalmente elaborati, spesso difficili da sciogliere: sono parole in cui ci si incaglia, tanto che la scrittura stessa sembra unulteriore trappola piuttosto che un rifugio («left to write I desecrate, its detrimental»).
Limpressione è che sia uno dei dischi dimenticati più belli dellanno. E non solo perché cè Barrow dietro. Basta ascoltare lunico episodio in cui Volk sembra voler portare fino in fondo la vocazione folk, puntando a un arrangiamento orchestrale di fiati, archi e corni, senza alcuna sperimentazione sonora: ne esce un piccolo capolavoro, Yellow Sneak, cui non serve aggiungere altro.
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