Johnny Cash
American III: Solitary Man
Quando si parla di Johnny Cash negli anni della American Recordings a chiunque viene in mente l’immagine rugosa del vecchio Johnny che canta il suo dolore nel suo salotto di casa in quel capolavoro-testamento che è la sua cover di Hurt dei Nine Inch Nails. In realtà quella serie di dischi, sette in totale, comprende varie facce dello stesso Cash magistralmente curate e coordinate da sua maestà Rick Rubin. Il disco in questione, American III: Solitary Man, pubblicato nel 2000 a tre anni dalla morte di Cash, quarto della serie se si tiene conto anche del live a Storytellers con Willie Nelson, è il disco che forse più di qualunque altro della produzione diretta da Rubin riesce a riassumere tali espressioni.
È un disco che spesso viene ricordato per la cover più celebre, “One”, ma che il più delle volte viene agilmente superato anche nelle antologie dedicate alla voce baritona più emozionante del secolo scorso, le quali preferiscono soffermarsi maggiormente sugli altri due dischi successivi, ben più espliciti, diretti, celebri e celebrati di questo. Volendo fare un paragone mi viene in mente il terzo capolavoro dei Led Zeppelin, misto di rock elettrico e bucolico che, pur con accenti ovviamente diversi, è stato a lungo messo in ombra dal suo successore. American III è per la maggiore un disco di cover che Cash non si limita ad interpretare, ma se ne impossessa, le fa sue, le usa a suo uso e consumo per raccontare l’oscurità, la paura, la morte.
Il pezzo che apre le danze dichiara subito quali sono le intenzioni del vecchio folkman di Kingsland: “I Won’t back down”; meravigliosa rilettura del pezzo di Tom Petty qui presente ai cori e all’organo. Segue una notevole “Solitary Man” di Neil Diamond di cui si può ricordare la versione italiana “Se perdo anche te” di Gianni Morandi. Il disco si apre definitivamente con One, in un’interpretazione acusticamente calda da bruciare anche le anime più gelide. Si passa poi agli altri due piccoli capolavori “I See Darkness” e “The Mercy Seat”. La prima è un toccante naufragio nell’oscurità con l’autore originale Will Oldham ai cori, la seconda è una bellissima e scura cover di Nick Cave meno convulsa rispetto all’originale.
Non sono da meno anche i pezzi firmati Cash; piccoli gioiellini country come “Field Of Diamond” e “Before My Time” , la scoppiettante “Country Trash” o la dolce “I’m Leaving Now”.
Tutto acustico, niente elettronica, sintetizzatori, distorsioni, niente di niente. Chitarre acustiche, qualche nota di piano, a volte un organo un violino o una fisarmonica. Il resto lo fa tutto una voce incredibilmente profonda, “così grande da rendere piccolo il mondo” per dirla con Dylan, che ti entra dentro e difficilmente esce senza portar via con se un brivido, un sorriso o una lacrima.
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