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R Recensione

7/10

Josephine Foster

Faithful Fairy Harmony

Poiché amo la musica e la considero una componente fondamentale della mia esistenza, posso dire di considerarmi uno di quegli ascoltatori praticamente infaticabili. Ascolto musica sempre e questioni di natura logistica mi permettono di poterlo fare, anche durante l'orario di lavoro (chiaramente con una attenzione minore rispetto ad altre occasioni) perché, del resto, è sul posto di lavoro che passo la maggior parte delle mie giornate. Ieri ascoltavo l'ultimo album di Josephine Foster da quindici-venti minuti, quando mio fratello mi ha detto che non ce la faceva più ad ascoltare “questa lagna”. Ovviamente non ne ho fatto un motivo di scontro e ho semplicemente cambiato musica. Va detto, nella specie, prima di ulteriori considerazioni, che mio fratello si può definire un buon ascoltatore. Semplicemente, come tutti, ha le sue preferenze e la ricerca di un compromesso sotto questo aspetto ci può stare. È pure innegabile, del resto, che una artista e una vocalist come Josephine Foster non sia evidentemente un ascolto facile: la sua musica senza tempo, gli accompagnamenti sempre leggiadri e accorti di chitarra, arpa, organo, le melodie incredibili della sua voce praticamente unica e semplicemente celestiale, non costituiscono in alcun modo possibile quella che si potrebbe definire pop music. Eppure, qui sta il punto vero e proprio della questione, in via generale non solo il riconoscimento della sua bravura, questo è un fatto assodato, evidente come la luce del sole di primavera, ma pure il suo riscontro di pubblico (oltre che di critica) sono universali.

Proprio questo rende Josephine Foster, a mio parere, un'artista unica e fa rivalutare ancora di più il valore della sua produzione, che adesso è diventata quantomeno robusta e che si arricchisce con questo doppio album intitolato “Faithful Fairy Harmony”, uscito su Fire Records e realizzato, come sempre, con la collaborazione del suo compagno Victor Herrero alle chitarre, della violoncellista Gyða Valtýsdóttir, di Chris Scruggs alla lap-steel guitar e di Jon Estes al basso. Un roster di musicisti, storici collaboratrici della Foster, anche loro caratterizzati dalla stessa eleganza e stile che la contraddistingue, che qui la accompagnano in un lavoro ambizioso: perché il disco, anticipato a partire da agosto con il singolo “Shepherd Moon Of Starry Height”, è un doppio LP di ben 18 canzoni, cosa che lo renderebbe apparentemente (pure alla luce delle considerazioni fatte precedentemente) ostico e quasi inavvicinabile.

E invece no. La bravura di questa artista si riflette proprio nella sua capacità di fare letteralmente scivolare gli ascoltatori tra le note della sua musica, accompagnati dalla sua voce melodiosa, che usa con una consapevolezza e un coraggio mai domo pure in maniera sperimentale (“The Virgin Of The Snow”, “Pearl In Oyster”, “Benevolent Spring”) in un succedersi di composizioni che si possono andare a considerare tra i grandi classici della musica leggera. La nostra chanteuse preferita si destreggia tra canzoni polverose e sviluppate su arpeggi cinematici e sonorità celestiali (“Soothsayer Song”, “Little Lamb”), temi più classici di piano come “A Little Song”, che sta alla musica come Charlie Chaplin sta al cinema muto, l'andante All Pales Next You” e il jazz a luci soffuse di “Adieu Color Adieu”, “I Was Glad” e la conclusiva spettacolare title-track. Di particolare interesse l'utilizzo della lap-steel guitar, che crea armoniose combinazioni in pezzi dai vaghi rimandi al country – qui inedito perché alto – e che caratterizza buona parte delle canzoni del disco, dotato di un carattere rituale: i lamenti di Josephine Foster vanno assegnati alla categoria del gospel e la loro natura non è malinconica, ma gioiosa, sofisticata e leggera, allo stesso tempo prepotente e anche qui (pure senza raggiungere i picchi massimi della sua produzione) estremamente coinvolgente.

È un disco che esprime benevolenza, ma che richiede altrettanta devozione.

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