V Video

R Recensione

7,5/10

Kristin McClement

The Wild Grips

C’è una sola ragione, a meno che non siate seguaci della Willkommen Records, per cui potreste conoscere Kristin McClement, ed è la ragione migliore. Potreste infatti averla intercettata nel novembre 2013 durante il mini-tour di 6 tappe che fece in Italia grazie all’organizzazione estemporanea ma appassionata di alcuni pazzi tra cui il sottoscritto. Inutile insistere: se eravate tra i presenti, non l’avete dimenticata. Discreta, timida, con una potente emotività coperta da una dolcezza schiva, Kristin McClement aveva già allora pronti tutti i pezzi per il suo debutto, ma era alla ricerca di un’etichetta, dopo aver pubblicato qualche (eccellente) Ep tra la Woodland Recordings e il self-publishing. Si capiva, già da allora, quanto sotto le sue sembianze quiete si nascondesse uno spirito tormentato.

The Wild Grips”, le strette selvagge, sono quelle che lacerano le viscere di Kristin nel suo pezzo capolavoro, qui riarrangiato rispetto alla versione originale (che era di una fragilità molto più sovresposta e cruda), tra un violino elegiaco, un piano che entra in ritardo a mo' di conforto e un arpeggio che dice tutta l’ossessione dell’amore non più ricambiato («The wild grips again / and I am no one at last. / Mankind disappears / and up comes the earth / and I am no one at last»).

Il folk della ragazza inglese (ora di stanza a Brighton), qui prodotto e mixato da Christian Hardy dei The Leisure Society (per i quali la McClement aprirà i concerti in primavera), sa di campagne inglesi profonde e abissi in minore, ma la scelta in fase di arrangiamento è stata quella di non lasciare in una solitudine scheletrica la voce vellutata e nebbiosa della McClement: violoncello, flauto, banjo, piano, sax, incursioni di elettronica fanno assumere alle ballate uno spessore a tratti più fosco (“Blackfin Gulls”) a tratti sfacciatamente arreso e spettrale, come negli splendidi sei minuti di “Giant No Good”, fatti di simboli pagani e minacce di flauto e clarinetto, mentre la batteria si interrompe in continuazione e il violino irrompe in un assolo da brividi, prima del crescendo finale. Qua la lezione di una certa Inghilterra cantautorale da sottoboschi, Birdengine in testa (non a caso amico di Kristin), è evidente, e traccia una linea ancora tutta da scoprire, a sé rispetto al solco americano, da cui sembra allontanarsi per qualche addentellato klezmer e gotico-mediterraneo in più (“Hoax of a Man”, “Drink Waltz”, che suona quasi come un Matt Elliott più educato) e per i tratti più bui.

Rispetto al materiale accumulato negli anni, il disco lascia fuori qualche pezzo meritevole e aggiunge qualche episodio non del tutto sicuro. Ne esce un album comunque notevole, da cui può prendere il volo una carriera importante.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
lorisp 7/10

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.