Laura Gibson
La Grande
La Grande è "una città dell'Oregon di cui le persone si servono unicamente per passare da un posto all'altro, ma che contiene una curiosa energia."
Così Laura Gibson, una talentuosa cantautrice di Portland, descrive il luogo che le ha dato l'ispirazione per il suo omonimo LP di dieci brani. Il risultato è puro e genuino. Una piccola gemma folk, delicata ed intrigante, dal sapore quasi poetico: come il sussurro pensoso di una chitarra acustica, in una piccola strada, notato appena dai passanti. Il lavoro della Gibson è sempre stato, comunque, costante, ispirato e mai in cerca dei riflettori. Tuttavia, forse, leggermente dispersivo. Parliamo di un folk americano cantato da una voce angelica, con forti influenze dream-pop, tra le onde minimali di sintetizzatori, archi, clarinetti, fisarmoniche e colpetti di glockenspiel. Da ricordare è, in particolare, l'espressivo "Beasts of Season" (2009), condito di un introspettivo gusto indie, nonché la felicissima e ricercata collaborazione con Ethan Rose in “Bridge Carols” (2010).
"La Grande" rappresenta, invece, una maturazione artistica: c'è un notevole passaggio ad una forma canzone più diretta, decisa e consapevole. La voce e gli arpeggi della Gibson si circondano di collaboratori importanti, quali Nate Query e Jenny Conlee dei Decemberists e Joey Burns dei Calexico, e si colorano anche di innumerevoli strumenti dal gusto ricercato, suonati dalla Gibson stessa, quali marimba, vibrafono e marching percussion. Questi elementi si combinano in modo lineare, creando un flusso ideale per quando si decide di staccare la spina. Infatti, le tracce scivolano via, brevi al punto giusto, variando e contrapponendosi, senza stancare o annoiare l'ascoltatore.
Ad esempio, la title track dà il benvenuto con un ritmo incalzante, fra suoni da vecchio west, strani voci arcaiche e profondi archi. Così, "Milk-heavy, pollen eyed", un'essenziale ballata folk-pop, coccolata dal basso e dal vibrafono, arriva inaspettata. “Lion/Lamb” riaccende l'attenzione con un coretto silvestre ed un ritmo jazzato, fra violini, trilli di fiati, sole e brillanti note di piano, in un'atmosfera incantata da bosco prog-rock. “Skin, Warming Sink” sembra la solita ballata acustica per voce e ruscello alla Gibson: eppure, si vedrà nell'ascolto, sa stupire, rivelandosi il pezzo meglio congegnato dell'album. La meditazione circolare di “The Rushing Dark” apre la seconda parte del disco, dove i ritmi caldi di “Red Moon” e “The Fire” (unica canzone veramente “popular” del disco, molto orecchiabile, con un organetto vintage come special guest) si alternano alle ninna-nanna da falò notturno di “Time is Not” e “Feather Lungs”.
Potrebbe essere la colonna sonora per un viaggio. Vero, immaginato, mistico, senza pretese. Per riscoprire l'odore acre della terra, del buio, della legna e dell'aria aperta.
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