Laura Marling
A Creature I Don't Know
Sarà la giovanile spigliatezza che fa il paio con unetà non poi così lontana da chi sta scrivendo in questo momento, il privilegio di averla seguita costantemente sin dai primi vagiti o i continui progressi conquistati con tenacia lungo una carriera breve, ma già ricca di soddisfazioni. Ogni nuovo disco di Laura Marling per essere più precisi, il terzo in appena quattro anni viene salutato con la grazia della (sempre) possibile ascesa di una nuova chanteuse e con limpazienza di chi va oltre laccordo, il frammento lirico, la gonnella. Quasi fa sorridere, ripensandoci, la fila serrata dei contestatori dellepoca Alas I Cannot Swim, quando ancora nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulle canzoni sbarazzine, eppure non banali di una qualunque bionda diciottenne: gli stessi che si sono visti costretti ad adoperare per un cambio di rotta in occasione di I Speak Because I Can, entusiasmante bis artistico in un mondo dove MySpace (esiste ancora?) non ripete. Scettici, o scettici, voi che ancora non credete nel potere delle nuove generazioni! Le poche riserve rimanenti si candidano ad essere spazzate via: A Creature I Dont Know è, ora, il lavoro che può certificare, in via definitiva, lentrata di Laura nellolimpo folk di chi realmente conta.
Lenergico impatto iniziale di The Muse oscura lo zampettare country di voce, acustica, strimpellate di banjo e pianoforte con una vena crepuscolare dritta dritta dalla (non troppo) vecchia Devils Spoke, come a riunire idealmente le anime dei primi lavori. Ma la Marling non è Amy MacDonald e nemmeno Dolly Parton, lo si era capito da tempo e lo si mette in chiaro ancor più convintamente con lo scorrere dei minuti. Finanche la capacità mirabile di sintesi personale attira lattenzione più come riconoscimento di una bravura accademica, piuttosto che costruzione di qualcosa oltre. Sophia, liberatasi delle paciose levigatezze che ne affliggono un po anche il finale, si inerpica in una sorta di notevole madrigale vicino a Kate Bush, costruito su belle architetture corali ed un climax strumentale che va ad arricchire di dettagli barocchi il basico giro centrale: il tutto va a confluire poi in All My Rage, saggio di songwriting verde con taglio da filastrocca che trabocca di candidi melismi. Nel mezzo, Night After Night ingigantisce la sua intima prospettiva di nascosto, intimo germe folk autoriale, conducendo i giochi sul filo del minimalismo, aperta se non addirittura agognata opposizione allopulenza di coda.
Laura Marling è il ritratto di una scuola che cambia, continuamente. Che sa sperimentare nuove forme melodiche, senza recidere i cordoni che legano inevitabilmente il proprio operato alla magnifica tradizione di cui è figlia. Ma Laura Marling, a sua volta, è anche, e soprattutto, una ragazzina ambiziosa in procinto di divenire una donna in grado di codificare un proprio messaggio compiuto. The Beast, a tal proposito, raggruma tutti gli umori più neri di una scrittura tendente, per sua natura, alla foschia, incedendo catatonica e (d)evolvendosi sulla scia di un polveroso, maledetto blues da strada. Cosa che una semplice wannabe ben difficilmente farebbe, o rischierebbe nel fare: questa è forse la forza dellautrice inglese, il nascondere chi si è veramente, o farlo credere altrimenti. Leclettismo, daltronde, non manca, nemmeno quando si scivola sul sudismo pragmatico di Salinas, unico brano facilmente evitabile e diretto discendente del gusto produttivo di Ethan Johns, o si cercano agevoli vie per portare a casa il bottino pieno (Dont Ask Me Why).
Ancora un po di maturazione, ed il discorso sarà completo. Il capolavoro è nellaria, fidatevi di noi
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