Laura Marling
Alas I Cannot Swim
Canterbury sta alla psichedelia quanto Seattle sta al grunge. Palm Beach sta allo stoner rock quanto Albione sta al revival brit. Giusto, no?
E Hampshire?
Facciamo così: mettiamo una chitarra acustica in mano ad una bella ragazza bionda, non ancora maggiorenne, cresciuta coi suoni di Bob Dylan e Bonnie Prince Billy nelle orecchie, e facciamole suonare delle belle canzoni folk scheletriche, dodici ad essere pignoli, giusto per voce, sei corde e qualche arco qua e là. Niente tapping, niente strascichi polverosi, niente graffi laddove non sia necessario.
Sarà fatta giustizia?
Copertina sciatta e confusionaria che assomiglia vagamente a quella del leggendario The Parable Of Arable Land dei Red Crayola, una voce tuttaltro che timida ed un look acqua e sapone, lontano anni luce dagli eccessi della connazionale Amy Winehouse (assolutamente aliena, fra parentesi, al percorso musicale della recensita): ecco come si presenta questo esordio della neo-promessa diciottenne Laura Marling, Alas I Cannot Swim. Sembrerebbe una storia come tante, alla fin fine: critica in estasi, ottimo riscontro di pubblico, ed un tale hype attorno a Laura han fatto sì che potesse aprire le date del tour olandese di Devendra Banhart, che lha voluta personalmente. Ma, se riscuoterà consenso anche al di fuori della sua patria natale, ci potremmo limitare a dire solamente che non è frutto del caso. Sia chiaro, non si sta insinuando una bieca operazione commerciale in mano ad impenitenti discografici. È solo che, almeno per una volta, non fa fastidio dire che questa next big thing ( ebbasta!) abbia talento.
Nulla di trascendentale, qui dentro, sia chiaro. Nulla per cui gridare al miracolo, o strapparsi i capelli. Tuttavia, la folksinger inglese ha alle spalle un solido parco ascolti ben calibrato fra maestri, vecchi draghi e alcune fra le promesse più interessanti degli ultimi anni. Questo buon gusto si trasmette poi, inevitabilmente, anche nelle sue canzoni. In Ghosts sembra un po di ascoltare Dolores ORiordan versione country: Tap At My Window, per voce, chitarra e violino, è un po ridondante, ma breve ed efficace; Youre No God, uno degli episodi meglio riusciti del disco, marca uno swing mordace in nemmeno due minuti e mezzo, fra campanellini e reminescenze vagamente slickiane.
Decisamente puntuale, la Marling. Concisa e senza paura di osare. Caratteristiche che ritorneranno anche più avanti nellascolto. La scelta di appaiare due pezzi come Cross Your Fingers e il breve intermezzo di Crawled Out Of The Sea, ad esempio, non è affatto incidentale: la policroma vivacità pop della prima, chiusasi introspettivamente in solo cantato, sguscia poi nuovamente fuori con una tromba presa in prestito da Jeff Magnum e i suoi Neutral Milk Hotel, formando un unicum davvero di gradevolissimo ascolto.
Ma Laura Marling non è solo canzonette allegre da canticchiare in allegria. Rumori, fruscii e disturbi vari cavalcano Night Terror, vera e propria favola dark con prospettiche sviolinate plasmata, per affinità lirica, sul modello del Nick Cave più oscuro e sepolcrale. Il tutto poi si trasforma ed evolve ulteriormente nella conclusiva, intensa Your Only Doll (Dora), dalle spennellate pianistiche, che nasconde in realtà la ghost (mai più a proposito) title track, annunciata da un insistente cinguettare. Non è concesso sapere di che uccelli si tratti ma, ci perdoni lornitologia, anche il dolce cicalecciare dei fringuelli, alla luce del pezzo che segue, assomiglia davvero più ad un gracidio davvoltoi.
Non avrete davvero più buoni motivi per ignorare questa ragazza. Sebbene con un larghissimo margine di miglioramento, la sua candida anagrafe segna un importantissimo vademecum per poter far sbocciare una florida e proficua carriera, più avanti con gli anni.
E, daccordo, Hampshire rimarrà pallosa così comè. Ma vi dispiace proprio?
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