Laura Marling
I Speak Because I Can
La possibilità di fallire, certamente umana ed ancora più comprensibile, data la giovanissima età che si porta appresso, non sembra appartenere al corredo genotipico di Laura Marling, appena ventanni e sentirsene almeno dieci in più. Lei parla perché può: duplice schiaffo a tutte le signorine wannabe che cambiano acconciatura a ritmo country. Ma il talento non si compra su Facebook (su, selezionate mi piace!). Nemmeno il somigliare indifferentemente a Dolores ORiordan, Amy MacDonald, Joan Baez e Grace Slick, direte. Che dislivello di paragoni!, risponderò. Eppure, riuscire a far breccia nei cuori stanchi di chi si porta appresso anni ed anni di caricature dei grandi maestri di songwriting non parlo di me, addirittura più imberbe della signorina in questione significa qualcosa. Per chi coltivasse ancora qualche dubbio, ecco arrivare con prontezza il secondo capitolo di una piccola carriera già degna di nota, che segue a ruota, a nemmeno due anni di distanza, Alas I Cannot Swim, la semplicità e la tradizione to the (flower) power con una capacità di scrittura, nera e zimmermaniana, sugli scudi.
Viva la sincerità. Laura Marling è il simbolo vivente del neo-folk (quello non apertamente neo-nazi, quantomeno!): con il cuore impegnato a casa Mumford, prima ancora da Noah e le sue balene, in una cricca che, la si giri come si vuole, si chiude attorno a quello scapestrato di Devendra Banhart. Epperò poi si assiste ad unapertura come Devils Spoke, un blues per chitarra e banjo assetato di tribalismi, slabbrato in un tam tam dove si innalzano, rapide, le vampe della pira attorno alla quale è stato composto. Un brano eccezionale, che sa di Missisippi e baracche, forma pop e disfacimento cajun, roba da masserizia nera o, al massimo, da Johnny Cash: ma la carta didentità è fissa su 1990. Fatto sta che il pugno allo stomaco arriva, rettilineo, semplice e pulito come la musica che accompagna. Tutto il mood del disco sembra essersi, in qualche modo, disfatto della tetra solarità dellesordio, rinunciando ad ampie fette di luce sonora per immergersi in atmosfere più consone ai testi che le accompagnano, incentrati sul senso di responsabilità di diventare donna (e artista compiuta?).
Il peso della crescita, in taluni frangenti, è evidente, specialmente quando proprio non riesce a contenere i paragoni impietosi per simultaneità (una spoglia, appalachiana What He Wrote). In questo, la freschezza e la solidità dellalbum a volte vacillano, mostrando le smagliature di pezzi carini ma fin troppo raccolti (la bucolica Made By Maid, non so perché, mi ha riportato alla mente Xavier Rudd). Sono momenti, in ogni caso, rimasti per la maggiore rari ed isolati, anche perché la ridotta quantità di carne al fuoco non permette grossi sbagli. Che, infatti, non vi sono. Margini di sviluppo si abbarbicano generosi un po ovunque, come sulla murder ballad di Alpha Shallows rivista da Marissa Nadler o, al contrario, nel lindo fingerpicking, foderato di archi ed ottoni, in Goodbye England (Covered In Snow). Leffetto che si ottiene è simile a Shania Twain che prova il corno in camera di F.S. Blumm. Lo sbarazzino anthem pop folk Darkness Descends, infine, ha una struttura così solida, forgiata da anni di pratica, da non cadere nemmeno a cannonate, con accelerate alla Youre No God torchiate da influenze soul.
Sì, forse il difetto di Devils Spoke è di buttare un po di sabbia negli occhi, e far riconoscere in ritardo i limiti di I Speak Because I Can, pur comunque buono e capace di momenti ugualmente incisivi, da rintracciarsi, per la maggiore, nel languido, scheletrico pathos di Blackberry Stone e nellibrido Dylan-Young della title-track.
Ma a ventanni, voi, a che cosa pensavate?
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