Laura Marling
Once I Was An Eagle
All I see is road / No one takes me home / Where, where can I go?
Il Cane disegnato dalla penna di Daniel Pennac, in Cabot-Caboche, sotto la fragile scorza moralistica dell'intreccio infantile vive una tremenda dissociazione. È sospeso, cioè, tra il suo essere coscientemente indomabile, selvaggio, primitivo e il giogo della mansuetudine che, come una maledizione cronenberghiana, si trasferisce dagli aviti progenitori. Quattro zampe, un'elementare capacità di coordinazione ed associazione, un inferno di bitume e acciaio chiamato autostrada come scenario rettilineo di una vita tutta curve: dove, dove può andare? Per un attimo, solo per un attimo, Il Cane si scinde. La fattualità, cioè, diventa cosa altra dalla potenzialità: ciò che il personaggio potrebbe essere e magari è stato, oppure tende disperatamente ad essere si separa da ciò che il personaggio, in fondo, è. Laura Marling è una bionda randagia dell'Hampshire di ventitré anni (scrivo questa cifra e mi spavento in automatico, pensando a cosa ci sia dietro) iniziata al nomadismo ancora anni fa, sparuta neo maggiorenne, da quel vecchio freak ed oggi, come tutti i freak, rispettabile personalità ripulita da ogni stramberia di Devendra Banhart. Sa cos'è la strada il vicolo polveroso della sua campagna, il grigio serpente che taglia le pianure e ne ha assaggiato ogni umore. She speaks because she can. Questo trotterellare si apre inevitabilmente sulla narrazione di Where Can I Go?, dove il folk inglese incontra l'Hammond e rivernicia ogni sillaba, ogni particella di soul. Laura è la reincarnazione vagabonda del demonio tentatore di Ivan Karamazov e Robert Johnson, di Jimmy Page e Sam Cook: un'anima errante che rinchiude la sue tensioni in pennellate di idillio bucolico, la tradizione hippy incastrata nel moderno e fatta propria. Una beat girl priva di efedrina.
Ogni disordine interiore viene innescato, come lo sparo dall'incontro di fuoco e polvere pirica, da un elemento esterno. Nikolaj Goljadkin proietta la sua mente di frustrato impiegato statale in una Pietroburgo di gelido terrore, dove i cadaveri dei contadini che morirono per l'impresa impossibile ancora urlano la loro alienazione dal sottosuolo. La gelosia frana sulla psiche di Diane Selwyn e si contorce orribilmente sotto le ferite del rimorso, che violentemente, manicheamente, crea un altro Sé. In Laura Marling convivono uno spirito nero, sudicio, peccaminoso, ed un anelito costante al candore, alla purezza. Nel notevolissimo terzo capitolo A Creature I Don't Know (per l'appunto) la prima tradizione veniva portata avanti da The Beast (diretta, evoluta discendente delle precedenti Devil's Spoke e Night Terror, verrebbe da rilevare), la seconda spinta si concretizzava nella catarsi conclusiva di Sophia e All My Rage. Once I Was An Eagle il vedere il mondo con altri occhi, da differenti altezze polarizza il discorso su due superbe traccianti. Capovolti gli standard grondanti sangue di Ella Fitzgerald e Nina Simone, Laura si erge, come un faro nell'oscurità, a cantare il maledettismo decadente, a farsi profeta di un blues stolido ed ossessivo, un delirio di tam-tam cullato da una voce che è megafono, artiglio, sentenza (Master Hunter): Leadbelly novant'anni dopo e, sul fondo, quell'attrazione atavica per il gesto estremo, che è insieme paura ed esorcismo (I was such a weird teenager, diceva di sé la diretta interessata fino a poco tempo fa). Passa qualche minuto, e la ragazzina col fuoco negli occhi e la voce arrochita invoca una redenzione monastica, scavando all'interno del proprio alter ego. La mangiauomini sull'orlo del fiume si confessa, ora, in una costruzione severa, classica nell'accezione stilistica dell'approccio chitarristico, un flusso di coscienza accarezzato da un violoncello, un sonetto la cui ricorsività è mitigata da una sensibilità sotterranea assolutamente percepibile. I see a lady dance yesterday / She is easily swayed / I cannot be tossed / And turned in this way / I am no one's tiny dancer, sussurra Laura, cavalcando la brezza che agita il sipario di Little Love Caster: l'espressione di un'indipendenza che, allo stesso tempo, è ferrea volontà di non contaminazione.
I was an eagle, and you were a dove
Laura Marling è stata informalmente eletta la nuova voce folk ufficiale d'Albione, una giovane e fragile musa che trascende la propria fisicità e la propria presenza scenica per aggrapparsi, direttamente, al nocciolo delle canzoni. Se oggi si può parlare della Marling come di una straordinaria artista a tutto tondo, merito speciale va senza fallo attribuito ad una metamorfosi progressiva che su di lei ha agito sin dai primissimi istanti del suo debutto in società. Once I Was An Eagle non sarebbe il mare magnum che in realtà è, se non fosse per tutto un complesso di passaggi evolutivi intermedi che, come su una cangiante nuova tela di Penelope, hanno concretizzato al massimo un talento cristallino. Si pensi anche solo alle parole spese, un paio d'anni orsono, per A Creature I Don't Know, dove si sentiva la ragazzina stravolgere la tradizione. Oggi la ragazzina è la tradizione. Filtrata attraverso indubbie influenze, ed un gusto d'insieme spiccatamente britannico, ma capace in sintesi di codificare essa stessa un proprio vestito. Al quarto full length, a ventitré anni, il rapace Marling annichilisce la concorrenza e sbaraglia le colombe avversarie, mettendo in mostra una maturità mentale, concettuale e strumentale dipanatasi al meglio nel rettangolo di ferro che apre il disco. Di fatto un blocco unico di quindici minuti, un saggio di esemplare ritrattistica che converge su molteplici, prominenti punti di fuga, i quattro pezzi che inaugurano le danze sono un sunto totalizzante dell'intero lavoro: la discrepante analogia che mette assieme i sistri minimali di Take The Night Off e la crescita di tono della title-track (con ritornello che è quasi elegia a sé) è già raffigurabile secondo i parametri dissociativi di cui sopra, e così il chit-chat spigliato di You Know (qui sì, Joni Mitchell) si stempera nella verbosità cantautorale di Breathe, con andamento spiraliforme ed essenziali integrazioni armoniche. Una rapsodia perfettamente compiuta in sé stessa, un disco nel disco. Gli archi suonano a festa, celebrando altresì il declino: Interlude, come alla fine di un atto teatrale, segna la cesura.
Il mondo di Laura Marling è un intrico indissolubile di fili rossi e discontinuità. Ogni pertugio di Once I Was An Eagle costituisce, potenzialmente, un ricettacolo di infinite dissertazioni: cosa che, doveroso sottolinearlo, non accadeva con i capitoli precedenti, pervasi da cima a fondo da un senso di lettura e decodifica pressoché unidirezionale. Vistosa, nella sua non uniformazione, è Little Bird, che si apre come una ballata folk di fine anni '60, costruita su arpeggi barocchi e ombreggiature di semitoni. Little bird, if only I knew / Maybe I'd be more like you, parlotta sardonica la Marling, e l'atmosfera cambia radicalmente colore: si cavalca ora una grandeur melodica d'altri tempi, con interferenze bossa che distorcono la percezione lineare del brano. Un colpo da biliardo che riluce, come un lampo, sopra a manifatture di più consona strutturazione, come il gospel laico di Pray For Me, lo spigliato e macabro passo di danza di Undine (ancora l'antica mitologia acquatica, con un ventaglio sconfinato di sottotesto ad aprirsi innanzi: agli ascoltatori più attenti il piacere dell'approfondimento, tra Ravel e Čajkovskij) e nella murder ballad funerea di Devil's Resting Place, tra Nick Cave e l'ultima Lykke Li.
Come in ogni romanzo degno di questo nome, l'epopea giunge al termine via epilogo. Once I Was An Eagle cala il sipario su di un esorcismo d'amore, Saved These Words, che riprende la linea melodica dell'accoppiata iniziale di tracklist, dilatandola e facendola correre incontro ad una catarsi solare. Poi, lo schiaffo dato col sorriso: thank you, naivety, for failing me again. Dato che l'ultima volta le mie previsioni si sono rivelate azzeccate, gioco tutto me stesso che la piccola, diabolica Laura ci ha ancora una volta presi in giro...
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