R Recensione

6/10

Matt Jones

The Black Path

La domanda, lubranianamente, nasce spontanea: sono sempre esistiti così tanti cantautori ascrivibili alla galassia del folk nella storia della musica o la loro proliferazione è una tendenza recente che, come quasi tutte le manifestazioni della stretta contemporaneità, fatichiamo a riconoscere? Sta di fatto che i singers songwriters spopolano ovunque, grazie soprattutto al volano di My Space, che certamente il suo contributo deve averlo dato a tale moltiplicazione, considerata la sua natura prettamente low cost e fai-da-te.

La cosa di cui sono sicuro, in compenso, è che i modelli di questa schiera di folk singers, a ben vedere, sono sempre gli stessi, con Bonnie Prince Billy a spiccare tra i contemporanei (ma Matt Jones, nella sua lista personale, aggiunge pure Barzin, avvertibile nei pezzi più rallentati) ed Elliott Smith tra quelli del passato prossimo. Risalire fino a Drake, Hardin e affini, ormai, non sempre è indispensabile per capire questi dischi, che spesso nascono sulla spinta di impulsi geografici, amicizie locali, scene cittadine (si pensi a quanto succede ultimamente a Portland o a Omaha), tanto che non appare casuale che sia Chris Bathgate uno degli sponsor maggiori di Jones. In casa Michigan.

Il quale Jones, povero, in un simile magma cantautoriale, si ritrova più sperduto degli altri a causa del nome anonimissimo che si ritrova, che lo potrebbe far confondere con almeno duecento profili di Facebook e dieci altri strimpellatori. Peccato, perché è un personaggio che la sua sa dirla con un piglio non comune, sfoggiando una predisposizione umorale che, pur tendendo qua e là al malinconico, si esprime per di più nel territorio dell’estroverso e del gioioso, quando non del festoso. Pare infatti che la lezione dei parenti circensi abbia lasciato qualche germe di briosità nel nipote, nonostante il titolo del disco possa far supporre il contrario. Ma basta ascoltare “Threadlines”, in apertura, con la sua batteria marciante, gli accordi cabarettistici, l’organo impertinente, il violoncello gongolante, la fisarmonica, il pianoforte honky-tonk, per rendersi conto che dove Jones riesce meglio è nei colori sgargianti. Pezzo eccellente.

La conferma viene da altri brani similmente arrangiati: “One Cotton Shot Short”, nella sua ricchezza orchestrale, ha una fresca aria metropolitana, mentre “Jugulars, Bones And Blisters”, dopo l’incipit austero di violoncello e violino, parte con un arpeggio frenetico verso lande desertiche che la voce sensibile di Jones accosta ai territori di un Tom Brosseau. “Waltzing With Lady Dawn”, di nuovo magnificata da archi molto invasivi, si muove eclettica come una farfalla, tra passaggi delicati e altri più intensi. Meno convincenti i momenti elegiaci del disco (“Holy Light”, “Missing Vein”, “A Sort Of So Long”), comunque sempre ottimamente curati, mentre la verniciatura nostalgica esalta “Marble Sleeve”: qui hammond, fiati, archi e una deliziosa batteria spazzolata potrebbero far credere a un pezzo degli Okkervil River ceduto a Sufjan Stevens.

L’anonimato non lo merita, Matt Jones. E il sentiero nero, qui poco più che abbozzato, può portare lontano.

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