Mojave3
Excuses for Travellers
La sabbia del deserto del Mojave è quella che soffiava sulla vita di Arturo Bandini (alias John Fante) nel romanzo “Chiedi alla polvere”, e in essa dava un peso all’esistenza, come se riuscisse a dare materialità fisica ai raggi di quel sole placido e indifferente. È un luogo immobile ma privo di silenzio, un luogo di attesa riempito dalle grida della grande città di Los Angeles che arrivano fin qui come echi di una vita estranea e rimbalzano sulle rocce antiche della Sierra Nevada, diramandosi nell’aria di questo deserto come una musica calma e irreale che soffia insieme alla sua polvere.
“In love with a view” è il canto di un uomo tradito: da una finestra ormai chiusa, attraverso il suo vetro lucido, la malinconia di un ricordo splendido riempie il respiro e la voce esce come una carezza tra gli slide della chitarra e le note del pianoforte che la cullano, alimentano la sua tristezza, la rassegnazione, l’amaro rimpianto di quello che poteva essere e non è stato. In “Trying to reach you” l’amante ha un soffio di speranza e guarda il muro della stanza dove è inciso il numero di lei, ma quello che manca è il coraggio di chiamarlo (“I got a number on my wall / someday soon I’m gonna call”), forse manca il coraggio di tentare, di rischiare, di lasciare una volta per tutte questo luogo immobile, dove la vita è qualcosa di incompiuto in attesa di un gesto, di una decisone che finalmente la renda un’opera d’arte (“My life in art”): a chi ce l’ha fatta si chiede come sia il mondo fuori da lì, come è andata la partita con il proprio destino, ma non c’è risposta perché tutti alla fine tornano indietro, come se la pace fosse soltanto qui dove non c’è nulla, un quieto e atroce ventre materno (“she left her home in a pick up truck / left her husband when he beat her up / and now she works all night / but the Kansas wind won’t freeze her heart / no the rain just rolls right off her back / she’s gonna be alright”).
Un incosciente terrore immobilizza la forza di volontà, impedisce quella decisione che strappi col passato e tutto ciò che l’animo permette è un gesto debole, qualcosa a metà tra l’azione e l’immobilità: una lettera, in cui tutti i dubbi, le paure, le insicurezze, le fragilità trovino il conforto di una risposta, la certezza che implorano, ma ogni lettera ritorna sempre al mandante (“Return to sender”) e il coraggio della scelta resta sommerso impotente sotto la polvere del Mojave. “When you’re drifting” scivola con una insostenibile leggerezza attraverso il suono di una tromba malinconica che accompagna la voce quasi soffocata dal ricordo del momento in cui tutta l’innocente spensieratezza è diventata un peso insostenibile, di quando si è scoperto che i limiti del mondo erano infiniti rispetto a quelli dei luoghi natii, non più abbastanza per i propri desideri (“when was the day / when suddenly / all of the time rolled away / you were drifting along / having some fun / when you noticed the clock”).
Ogni giorno potrebbe essere quello giusto per lasciare tutto questo (“Anyday will be fine”), anche un giorno di sole, senza tristezze, se solo queste paure non bloccassero, paure che sappiamo, sono solo nella mente (“you say it’s wrong / but it feel so right to me / cause all theese things / are just a state of mind”) e che un giorno, prima che distruggano definitivamente la tranquillità, costringeranno a combatterle attraverso dei farmaci che placheranno la stanca rabbia, lasciando delle esistenze nient’altro che polvere (“She broke you so soft”). “Prayer for the paranoid” è una lettera letta da una voce antica, un altro gesto impotente, una preghiera riemersa da un tempo lontano in cui quel luogo era la salvezza dal paese straniero nel quale la guerra aveva costretto delle vite umane, rendendo nella mente il ricordo di quel sole impassibile come un sogno di paradiso, la quiete atroce come il desiderio più grande e l’incompiutezza di un luogo dove la dura realtà non esiste, il senso dell’esistenza.
Ma è un sentimento antico quello inciso nella lettera, il presente è qualcosa di opposto, un rifiuto, una voglia di libertà, di vitalità, il grido convinto di una fragile voce femminile in “Bringin’ me home”: la pioggia che batte in questo luogo straniero è vita, la frenesia che affoga il tempo è respiro, la pienezza del rischio e della sfida riempie l’esistenza come un gioco infinito dove ci si sente vincitori anche quando si perde se è ciò che si vuole (“playing with my life again / just playing with my life again”). C’è chi è partito e promette che non tornerà più, c’è chi resta, perché ancora non ne sente il bisogno, perché non ne ha il coraggio, o semplicemente perché è quello che vuole: una tromba sussurra che non c’è nessun rimpianto, un coro dona la consapevolezza dolce di aver trascorso dei bei momenti insieme, da portare sempre con sé, che si resti o che si parta, dovunque ci si trovi (“Got my sunshine I’ll get by”).
La polvere del deserto del Mojave fa brillare ogni cosa di un chiarore opaco sotto i raggi del sole cieco che non smette di battere. Un perenne senso di attesa e di incompiuto riempie come un vuoto l’esistenza in questi luoghi e si vorrebbe strappare un’improbabile serenità a un quieto pomeriggio dove il tempo passa invisibile pesando come un macigno. Si cerca invano una scusa per abbandonare tutto questo: “Excuses for travellers”, motivi per viaggiatori non troppo convinti di rompere il legame con il proprio passato. Queste canzoni sembrano emergere da un dipinto di Edward Hopper: una calma provincia americana, fin troppo quieta, un’insostenibile bisogno di gridare. Ma tutto ciò che le labbra riescono a soffiare è questo disco, semplice e sublime.
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