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R Recensione

7/10

Old Lost John

Faceless

Ammettiamolo. Siamo nel pieno revival di camicie di flanella e barbe da hipster intellettuale di strada. Il folk ritrova i suoi segni distintivi americani come nel lieve Iron & Wine, i quadrettoni colorati sono ormai sdoganati dalla passata parentesi grunge di Seattle e sono stati restituiti ai boscaioli che vogliono raccontarci la loro vita tra foreste, fiumi, pipe e bellezze montane (anche se ormai il quadrettone colorato è diventato un po' di tutti in realtà). Anche se Old Lost John non è canadese ma svedese, va bene uguale, è la globalizzazione baby, e qualcuno deve pur trarne il meglio. Se dovessimo dunque attenerci solo all'aspetto esteriore di questo cantastorie diremmo che nel personaggio ci sta dentro. Ma Tomas Thumberg non è qui per tagliare alberi, ma per raccontarceli come se ci camminassimo insieme sfiorando le secche cortecce sbeccate dai roditori e dal tempo. Perchè se dovessimo evidenziare una caratteristica di tale delicato songwriting diremmo che è il suo pathos così dolcemente levigato a farne da padrone.

Il filo musicale che si dipana dall'ascolto di quest'album non è il solito folk che tanto deve a Bob Dylan o a Neil Young, ma si distingue in una profonda revisione di una svolta molto più noir che quasi ricorda il percorso delle ballate di Mark Sandman dei Morphine. Si sente l'alone di un fumo scuro nell'aria, forse non sarà di sigaretta o pipa ma della nebbia mattutina in un freddo mattino scandinavo. E iniziamo la nostra giornata allora, ma di buon'ora, quando il sole ancora non si è svegliato del tutto e ci sbadiglia degli stanchi raggi appena tiepidi. La voce di Thumberg ci chiama con un timbro vocale simile al miglior cantastorie navigato e appena alzato dal letto. Non è costernato né spossato da quello che deve affrontare, è abituato lui, nascondendosi dietro la sua lunga barba che fa muovere quando si fa accompagnare da una costante e vellutatissima chitarra di sottofondo. Scopriamo presto che non è solo come sembrerebbe suggerire il malinconico trombone che lo segue in “Broken”, ma sembra quasi convivere con la corista Frida Åstrand per l'intesa che si sviluppa nel loro intrecciarsi pacato e gentile di voci. La fredda eleganza del duetto ci veste in “Fairies and Fools” e sfocia in quella vissuta consapevolezza emotiva di “Come Saturday” che potrebbe ricordarci un lontano Bob Dylan romantico e disilluso, con soffici fiati a sostituire l'armonica.

Se ancora non abbiamo capito come nasce questo rispettoso stupore per la natura nordica, potremmo farcene un'idea con l'ascolto di “In from the cold” caratterizzata da una solitaria e pungente chitarra che ci suggerisce il freddo delle strade che potrebbero essere state lievemente imbiancate da Bonnie Prince Billy. Il respiro sospeso dell'organo a pompa di “Tremble” ci fa sentire tutta l'aria della natura dai paesaggi incontaminati che ci si stagliano davanti ai nostri occhi dopo qualche breve sentiero. Si avverte una intensa componente espressiva che ha il sapore di storie lontane già sentite ma raccontate con acuta maestria da uno che ne sa. Con la successiva “She won't listen” ci accostiamo a un filone folk più friendly e più comune come quello di un primo Chris Bathgate o di un Bon Iver, anche se l'intermezzo di mandolino colpisce piacevolmente per chiarezza, come un vicino cinguettare di qualche uccellino. Ma già con “Railway Car” Thumberg va oltre, aggiunge alle sue camiciona e barba anche un vago cappello sgualcito, di quelli à la Tom Waits, con un blues doloroso. Echi che si fanno sentire più forti nella chiusura di “Dagger, Dagger” quasi armonicamente spettrale come una vecchia fiaba di paese. Da non dimenticare poi neanche la debole tenerezza di “And She Looked Down” , esattamente quello che ci possiamo aspettare dal genere di questo disco: uno sguardo al cielo ormai crepuscolare che ci attende, è tempo di tornare. Perchè sono queste luci tenui (albe e tramonti) di chissà quale fiordo a raccontarci la vita intima di Tomas. Nota particolare per “Nothing good”, che si diffonde nelle nostre orecchie con l'incedere maestoso e stanco dell'organo a pompa mentre Old Lost John si lascia andare a confessioni che suonano come un breve testamento confermato forse dalla chiusura ultima della già citata “Dagger dagger” dal sottile suono ligneo della porta di casa che si chiude o forse l'anta di un armadio pieno di modesti stupori e dolci ricordi. O forse no, è solo il coperchio dell'organo a pompa.

Non aggiungerà poi molto al genere, ma l'ottimo performing e la discreta introspezione che ci presenta questo progetto ci fa sotto sotto riflettere e segretamente commuovere, quindi imitiamo pure senza vergognarci Tomas Thumberg e copriamoci la faccia rimanendo in silenzio, che sia il cielo di uno stanco sole di mezzanotte a parlare, lo stesso che si respira in questa riflessione slow-coustic così delicata, così sentita. Perdiamoci insieme a Old Lost John.

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