Richard Buckner
Surrounded
Tempo fa, su una rivista americana, Richard Buckner veniva tratteggiato con queste parole: Le sue canzoni non hanno ritornelli, e si svolgono a un ritmo sonnolento. La musica si adatta perfettamente alle parole e alla voce, ma è lontana da qualsiasi cosa attualmente sentita alla radio o sui canali televisivi. Né si rivolge a tutti. Come per il teatro di Edward Albee o Jean Paul Sartre, la musica di Buckner richiede un ascolto attento e una volontà di ignorare le convenzioni. Mai giudizio fu più calzante per inquadrare un artista rimasto sempre ai margini dei riflettori, carezzato come caro oggetto di culto da pochi e fedeli proseliti. Un nomade perenne, un paroliere colto. Dapprima legato alla più normale tradizione popolare, poi intimista, rannicchiato su se stesso, incline a popolare le canzoni di amori non corrisposti, di anime torturate, di paesaggi mozzafiato.
Disegnava e dipingeva, da bambino. Era questa la sua arte, mentre la chitarra attirava polvere in un angolo, inascoltata e silenziosa. Fu una lenta conversione, compiuta solo negli ultimi due anni di college. Da lì tanti luoghi, tante facce, tanta vita. Dalla California a New York (dove oggi risiede), passando da una sponda allaltra della sua America e spesso isolandosi per scrivere: in qualche sperduto motel, sulle strade sconosciute, perché lì non squilleranno telefoni, e la pace aiuta a comporre. Come quando nel 96 si ritirò a Bellingham, ai confini col Canada, in una stanzetta sulla baia, con il bosco alle spalle e come compagnia la solitudine e la chitarra. Sarà per queste sue tendenze da anacoreta che ascoltando lennesimo lavoro, Surrounded, si ha limpressione di vedere Chris McCandless che si muove tra gli alberi, i cavalli e la neve dellAlaska, con Eddie Vedder ad accompagnarne le gesta.
Lo si nota già dalla prima traccia omonima, dal timbro profondo e rassicurante, dalle corde pizzicate velocemente su accordi sconsolati. Come fossero mattoni, Buckner costruisce i suoi brani metafora su metafora, tramite testi densi di soggettività, al solito (solo in The Hill aveva smesso di mettere al centro se stesso). La novità sta nel fatto che le liriche di Surrounded sono tratte da un unico testo in prosa, continuo, e i testi stampati nel libretto del CD sono integrati con le altri parti tagliate, evidenziate in rosso. Così lomissione è spiegata, lermetismo si apre, le ombre si illuminano. Ma lidea è quella di un flusso conforme di trentatré minuti, con la chitarra acustica permeante, e camei di corde elettriche (Go), di synth inattesi (Cut), di sporadiche percussioni (When You Tell How It Is). Padroni sono i momenti nostalgici con accordi in minore (Mood), più frequenti dei pezzi solari e cadenzati (Foundation) o di quelli attraversati dalle rare tastiere (Beautiful Question).
I riferimenti di Buckner, naturalmente, sono i classici del folk americano: Townes Van Zandt, Butch Hancock, Peter Case, passando a Terry Allen nei brani dal respiro più country. Nella qualità degli arpeggi acustici il buon Richard ricorda peraltro il Drake più radioso, mentre nel cantato malinconico si accosta tanto a quella buonanima di Vic Chesnutt. Rispetto agli esordi più minimalisti, Buckner, oggi 46enne, aggiunge infrastrutture, effetti e riempimenti, ma non smarrisce quel primigenio nocciolo sobrio, frugale, altalenando un rock acustico, un alt-country e un folk moderno. Roba buona, insomma.
A lui, dunque, va il merito di essere rimasto sullumile cresta dellonda da qualche lustro, senza particolari perdite di equilibrio, e va anche il merito di aver ispirato Bon Iver, come ha dichiarato Justin Vernon. A Surrounded va concesso, invece, almeno un ascolto. Nella speranza che una sua canzone, come stella cadente, schianti una finestra (limmagine è narrata in Lean-To, meraviglioso congedo). Una finestra in noi.
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