Stranded Horse
Humbling Tides
Il disco precedente del francese Yann Tambour, pubblicato sotto il nome Thee, Stranded Horse, lo trovate nella nostra lista dei migliori dischi del decennio zero. Mica a caso: da quando, accantonato il progetto ambient-sperimentale Encre (notevole “Flux”, 2005), Tambour si era appassionato alla kora (strumento a 21 corde di origine maliana), la sua ricerca musicale sembrava aver trovato una dimensione quasi miracolosa. Le canzoni si muovevano scheletriche, tra abissi silenziosi e improvvise vibrazioni di arpeggi, su cui la voce di Tambour, tra naso e gola, trovava un modo di distendersi personalissimo. Cantautorato folk minimale ce n’è a fiotti: ma il suo, non solo per l’esotismo della kora, ma anche per un suo magico ipnotismo, a spire (Coacci citava giustamente John Fahey), riesce ad arrivare nel profondo, smarcandosi da tutto e tutti.
Quattro anni dopo “Churning Strides” arriva l’assonante “Humbling Tides”: in controtendenza rispetto al moniker scorciato, la musica di Tambour si arricchisce attraverso entrate ad alto tasso di poeticità di violino e violoncello, mentre la base di arpeggi (kora e chitarra: Tambour le riesce a suonare anche contemporaneamente – se non l’avessi visto, non ci avrei creduto) rimane la stessa. Certo, il potenziale evocativo della sua scrittura viene amplificato dagli archi fino quasi al parossismo: “Le Bleu Et L’Éther” è uno spettacolo, anche perché gli archi non coprono, ma accompagnano, spariscono, si fanno tesi, poi morbidi, assecondando alla perfezione l’andamento a ondate e riflussi su cui Tambour costruisce i suoi pezzi.
A ogni ascolto, così, si sente riformarsi e riplasmarsi la canzone, che sembra davvero materia viva, non già data. Anche per questo, un ascolto distratto di Stranded Horse, pur sembrando plausibile (pezzi mediamente lunghi, ripetitivi, spogli), non è possibile: se ne viene attratti, magicamente, risucchiati. Più “Shields” itera melodie e arpeggi, più attrae, perché non lo fa mai in modo meccanico: la linea emotiva oscilla in continuazione, tanto più quando poi interviene il violino e quando la kora di Ballaké Sissoko si sfoga in un finale fenomenale, tra esplosioni di note cristalline che riescono ad ammassarsi senza smettere di farsi sentire, distinte, una per una. Tecnica (non maniera) e cuore.
E poi basta, ché il disco di Stranded Horse è intimissimo. Anche dove è più diretto (“And The Shoreline It Withdrew In Anger”, la struggente “Les Axes Déréglés”), anche in “What Difference Does It Make?”, cover dei primi Smiths il cui riff tipicamente marr-iano viene come vivisezionato e denudato (e Morrissey ringiovanisce, si fa ancora più timido – più disperato?). E tanto più, poi, nei dieci minuti di “Halos”, la cui dolcezza gentile si ferma però in continuazione ai margini di silenzi attoniti, fino a incupirsi e poi a impazzire (il Tambour furioso) nella lunga coda in accelerazione – sopra cui piangere (scegliete voi di cosa) può capitare.
Poca elegia. Grande artista. E altro disco da tenersi stretto. Come qualcosa che ci appartiene, da subito, per sempre.
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